pensieri del dentro 27: la dimensione del trauma tra evento e struttura
Lo sappiamo da sempre, ciò che accade apparecchia sulla tavola della realtà la personale dimensione di ciò che appare come reale.
Se la realtà non ha la necessità di essere acchiappata dal momento che già possiede la sconveniente caratteristica di esistere, il reale è uno spazio e un tempo (uno spazio-tempo direbbe Einstein) abitato senza che se ne abbia una percezione della dimensione fisica come classicamente si suole intendere.
L’insieme degli eventi che costituiscono ciò che viene comunemente definito come realtà è infatti, come ci insegna la fisica quantistica, una approssimazione più o meno condivisa di ciò che viene percepito. Il ‘più o meno’ non dipende dalla realtà in sé e per sé, ma da come ogni persona la percepisce, e, di conseguenza, la significa.
Allo stesso modo non esiste “il” tempo unico e assoluto, ma ne esistono diversi che sono i momenti in cui si sviluppa un’interazione, quale che essa sia.
Alla stessa maniera, non esiste “lo” spazio unico e assoluto, ma ne esistono diversi nella misura in cui indicano la correlazione tra corpi ed eventi. Per la medesima logica, non esiste “il” vuoto, ma una apparente assenza di quel qualcosa che si segnala e che notiamo per la sua mancanza.
Così come non esiste una realtà unica e assoluta, ciò che di essa appare, ovvero il reale, è a sua volta una dimensione che ognuno si rappresenta senza in realtà sapere di cosa parla.
La fisica quantistica è per me da sempre un territorio fertile che offre meravigliose definizioni in metafora e che utilizzo per addentrarmi in terreni scivolosi, e quindi anche nel caso del parlare della realtà che del reale.
Nel primo caso, come implicava Heisenberg (1) con il suo principio di indeterminazione, non è mai dato descrivere in modo oggettivo ciò che chiamiamo realtà. Tutt’al più possiamo esprimere delle probabilità di avvicinarvici, dal momento che movimenti e posizioni non potranno mai essere definiti contemporaneamente, e che il nostro solo osservarli è altresì già un movimento trasformativo.
Nel secondo caso, come scriveva Niels Bohr "tutto ciò che chiamiamo reale è fatto di cose che non possono essere considerate reali” (2).
Carlo Rovelli unisce le immagini di queste due istanze, le connette e le libera dall’imperativo dell’assolutezza: “l’immagine della realtà che ne deriva è sconcertante. Non è appoggiata a nulla: ogni fatto è solo un fatto relativo a qualcos’altro, e anche il fatto che un fatto sia relativo a qualcosa è esso stesso relativo. Nulla di questo ci impedisce di descrivere il mondo da una prospettiva, la nostra. … Possiamo anche chiederci come appaiamo noi dalla prospettiva di un altro. Niente di più facile: basta chiederglielo. Ma non ha senso chiedersi cosa sia il mondo indipendentemente da una prospettiva … non ci insegna nulla di utile sul mondo, dato che noi siamo una prospettiva” (3).
Questa lunga introduzione, con la fascinazione per la lettura inter-relazionale tra fisica e psicoanalisi, rischia di portarmi altrove, ma mi pareva necessaria per provare a spiegare il modo in cui la dimensione del trauma si situa in un continuum tra evento e struttura.
Il trauma, termine assai spesso usato e abusato, deriva dal greco “τραῦμα”, letteralmente è trafittura, perforamento.
Quale che sia l’accadimento, questo trafigge, perfora. Entra all’interno: "il trauma non è ciò che ti accade, ma ciò che accade dentro di te come risposta a ciò che ti accade” come scrive Gabor Maté (4).
E’ dentro il corpo, nel nostro mondo interno, che la realtà prende la parvenza del reale e dall’inconscio ci muove nei passi che definiscono la dimensione del trauma. Come bene ha spiegato Lara Sheehi nel suo recente saggio (5), il processo di guarigione si da quando il trauma può essere raccontato nella sua interezza, con verità e senza saldi. Ma quando il trauma è senza fine, la sua verità non è mai compiuta, proprio come una ferita che viene riaperta in continuazione. Allora esce dalla dimensione ‘evento’ per definirsi come dimensione ‘struttura’.
La violenza sistemica e protratta nel tempo senza alcuna possibilità di sosta determina un’impossibilità di abitare la realtà, dal momento che nel suo essere sistemica e continua la violenza non permette l’affioramento di una verità dicibile. Quando la ferita sanguina, non è tempo per le parole, è tempo di dolore e lacrime. Tempo di una disperazione che trasforma strutturalmente ciò che appare reale.
Nel suo rapporto 2025 sui dati raccolti nel 2024, War Child UK Alliance rivela che il 96% dei bambini che vivono sotto assedio in Palestina percepisce la propria morte come imminente, e quasi il 50% ha espresso il lucido desiderio di morire. Il 92% di loro “non accetta la realtà”, il 79% soffre di incubi ricorrenti, e il 73% manifesta sintomi evidenti di aggressività, rabbia incontrollata, comportamenti impulsivi.
Le percentuali che avevamo raccolto (6) oltre 20 anni fa a Gaza e in Cisgiordania sono più che raddoppiate.
Quando il contesto in cui si vive riporta come unica dimensione la violenza e una sopraffazione sistematica volta all’annichilimento totale della persona, i segni, oltre ad essere cicatrici indelebili sul corpo, diventano ferite strazianti nel corpo.
Non solo quindi segni ‘sul’ corpo, ma ‘nel’ corpo. Invisibili a volte da fuori, terribilmente sentiti dentro.
Può essere difficile per un occidentale dare un significato a quanto accade, ma si può provare a lasciare la propria prospettiva per mettere questione sulla prospettiva dell’altro.
Prendiamo il nostro corpo come terreno di metafora, e immaginiamo cosa accade nel caso di un incidente sugli sci. Può capitare che la caduta sia rovinosa senza essere devastante. In questo caso, i traumi provocati dalla caduta saranno limitati, qualche osso rotto. Ne seguirà un periodo di cura, doloroso, la cui durata sarà diretta espressione della rovinosità della caduta. Ne seguirà un periodo di riabilitazione, fisioterapie, kinesioterapie, piscina, nel quale sofferenza e durata dipenderanno sia dalla dimensione traumatica della caduta, sia dalla responsività fisica e corporea della persona interessata.
Nel caso in cui la caduta sia non solo rovinosa ma devastante, il trauma potrebbe essere localizzato ad un livello di gravità tale per cui sarà possibile un’orizzonte di cura che non sarà però in grado di diventare guarigione, di recuperare la dimensione invalidante del trauma. La rottura di una delle prime vertebre può causare una tetraplegia. Dal punto di vista della cura, potrà esserci una ripresa di molte funzioni, ma non ci sarà il superamento della dimensione invalidante, che diventa di conseguenza strutturale.
Questo non accade solo al corpo. Ci sono accadimenti che producono un trauma che rimane nella condizione dell’evento, e sono quindi ricuperabili, seppur attraverso un processo faticoso e doloroso. Laddove gli accadimenti che fanno trauma siano ripetuti continuativamente nel tempo e/o se di una intensità tale, possono prendere la forma della struttura.
Quando il trauma è struttura, esattamente come accade al corpo, sarà possibile attraversare un processo di cura che sarà al massimo di riduzione del danno, senza che la forma struttura dell’esistenza individuale possa trovare particolari passaggi ulteriori.
In questo secondo caso, la dimensione del trauma come struttura si definisce nel suo porsi come una condizione di un venir meno, più o meno parziale, più o meno completo, della dimensione esistenziale di poter essere.
Questo venir meno può avere le stesse caratteristiche di una morte lenta, dilazionata nel tempo, radicata nel non più esistere nel quotidiano, come nel desiderio profondo di poter avere la grazia di non-più-vivere, come raccontano i bambini e le bambine palestinesi.
Nel caso in cui il trauma si faccia struttura nel corpo può non esserci più la capacità e la possibilità di autodeterminarsi su un piano esistenziale, e la persona può, a quel punto, percorrere un processo più o meno accelerato rispetto alla condizione di lenta morte.
Potrà cioè deprivarsi progressivamente di sostentamenti vitali, per esempio diminuendo radicalmente la propria capacità di prendersi cura della propria dimensione corporea, sia attraverso la privazione del cibo, che non è anoressia, o un venire meno dell’igiene e della pulizia, che non è un inciampo nella cura di sé: è un farne radicalmente a meno quando ciò che è a meno è il sé stesso.
Che si tratti della popolazione di Gaza, della Cisgiordania, del Sudan, o di un rifugiato che abbia percorso la rotta balcanica o quella libica, nulla mi stupisce di più di quanto sia profondo il punto di resilienza, cioè il momento della rottura per eccesso di torsione esistenziale.
“Cura di sé”, interessante espressione, rispetto alla quale il venir meno di una sua parte ne segnala la dimensione del trauma, se più sul versante evento o su quello della struttura.
Se a venir meno è la preposizione che funziona come specificante, rimane la dimensione condizionale di una “cura … se (for-se)”.Se viene meno la dimensione della cura, rimane comunque una possibilità di struttura che parla “… di sé”.Ma se a venire meno è il sé, la “cura di…” rimane un espressione aperta, priva sostanzialmente di senso e di orizzonti.
Ciò che le dinamiche transferali insegnano, è che, di fronte all'angoscia pervasiva, i luoghi, i tempi e gli spazi mancanti di senso e di orizzonte possano essere occupati dal curante, che in quel momento va ad occupare il posto del soggetto della cura, estromettendone così la posizione, solo per difendersi dalla propria angoscia di assistere al lento morire, al lento venir meno, al lento svanire di un’esistenza colpita dal trauma.
Nel suo “Psychoanalisys under occupation” , Lara Sheehi riporta la storia di M., un promettente giovane scrittore che si suicidò per asfissia nel 2017. Era al suo terzo tentativo. Nei suoi brevi 22 anni di vita, la negazione delle prospettive di vita legate all'assedio israeliano di Gaza e al padre di M. rappresentano “un processo parallelo in cui si replicano a vicenda, ciascuno identificabile come una forza distintamente soffocante”.
Ahmed Abu-Tawahina, ex direttore del Programma di Salute Mentale a Gaza, bene esprime come l'idea di evento del "trauma possa avere senso a Ginevra, dove c'è sicurezza, stabilità e routine”. Ma per un eccesso di distanza, che denota, direbbe Fanon, un implicito paternalismo colonialista più che una dimensione geografica, si fatica ancora a comprendere appieno come il trauma, una volta fattosi struttura, possa sovrapporre la fine del dolore e dell’angoscia alla fine della vita, e come questo sia comprensibile da chi abita una quotidianità di costante e infinita paura che la propria fine violenta avvenga al prossimo passo.
In un contesto in cui si respira violenza e morte, il suicidio appare come qualcosa di più profondo di un passaggio all’atto, essendo nello stesso esatto momento sia un atto di disperazione e sofferenza, sia l’unico possibile tentativo radicale di "disobbedienza volontaria” da un destino subito da terzi.
Non si tratta di romanticizzare, celebrare o fare apologia del suicidio, ma di significarlo provando a sentire la profonda potenza del viverlo come un atto di soggettivazione radicale, che consenta un uscita dal giogo di un assedio, di un genocidio, della tortura o della schiavitù.
Come scriveva Baudrillard "contro l’illusione insensata dei vivi di volersi vivi a esclusione dei morti, contro l’illusione di ridurre la vita a un plusvalore assoluto sopprimendone la morte, la logica indistruttibile dello scambio simbolico ristabilisce l’equivalenza della vita e della morte" (7).
Per poter avere cura della vita, per poterla testimoniare, occorre permettersi di cogliere il discorso del morire, riconoscerne, attraverso la sua grammatica, la sua dignità.
Attraverso l’atto più radicale che esista, c’è l’enunciazione di un soggetto parlante, un soggetto lacaniano di enunciazione, un sé desiderante che non si lascia mettere a tacere nemmeno quando è stato annichilito dalla vita.
Se nel caso di M. l’atto è puntuale, in altri può essere differito, come nel caso di S., un maturo uomo afgano che raggiunge l’Europa dopo una rotta in balia delle violenze e delle torture che lasciano profondi segni, visibili anche sul corpo. L’aver raggiunto il riconoscimento dello status di rifugiato sembra apparentemente aver rimarginato le cicatrici. Curato, proattivo, ottiene un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Quando la ditta si trasferisce in altra città, viene licenziato per giusta causa, cosa per lui incomprensibile “la causa è giusta se faccio errori”. Questo evento, che può apparire banale a fronte delle esperienze precedenti, ha un significante implicito: la non significabilità di comportamenti che si subiscono senza che ci sia una causa giustificabile. Ripartono i vissuti paranoici e persecutori, che esplodono silenziosamente quando la casa costruita per i parenti in patria viene rasa al suolo da un terremoto.
Silenziosamente, frana anche il mondo interno. Un giorno chiama l’operatore chiedendo che lo si passi a trovare a casa. Qui, lavato e vestito con i suoi abiti migliori, consegna i propri oggetti personali più preziosi chiedendo di conservarglieli, perché sarebbe andato a uccidersi. Viene poi allertata un’ambulanza, a cui faranno seguito vari ricoveri e una presa in carico farmacologica con terapia antidepressiva e antipsicotica. Tornato nella struttura di accoglienza, S. chiede all’operatore, con un candore infantile, “perchè mi hai fatto questo?”. Torna. Torna e ha lo spazio per farne parola.
L’atto di incontrarsi, di poter tornare ad avere un canale in cui domandare un senso, diventa uno spazio fondamentale di cura, una cura basata su piccoli gesti, su silenzi, che trascende i confini della clinica, e si da come spazio politico, uno spiraglio in cui poter recuperare l’ebbrezza straniante dello specchio; uno spazio liberato, che va lasciato libero affinché si possa tornare ad esistere come soggetti, come parti di una comunità, come popolo, come esseri umani.
La cura implica l'esistenza.
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Riferimenti:
1. Werner Karl Heisenberg, I principi fisici della teoria dei quanti, 1930
2. Niels Bohr, The philosophical writings, 1987
3. Carlo Rovelli, Sull’eguaglianza di tutte le cose, 2025
4. Gabor Maté, Il mito della normalità, 2023
5. Lara Sheehi, Psychoanalysis under occupation, 2023
6. A inizio 2000 raccogliemmo le espressioni di ragazzi e ragazze a Gaza e in Cisgiordania: “La percentuale di ragazze e ragazzi che dichiararono di aver paura di uscire di casa in modo permanente sfiorava il 30%. Vissuti di ansia, fobie e attacchi di panico erano già molto diffusi, oltre il 50%. E poi claustrofobia, difficoltà a dormire e a sognare. Enuresi notturna. Articolo completo: https://www.paolobrusa.it/2024/04/i-pensieri-del-dentro-19-una-garza-da.html
7. Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, 1979





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