i pensieri del dentro 22 - etimo che vai cercando

Tutte le volte che si parla, si parla di parole. 
Non può che essere così.
Spesso ripeto a me stesso, ai miei figli, alle persone con cui lavoro e che incontro nella vita, come più che nei "perché" trovi che la parte interessante sia il “come”. Come parliamo. Come siamo parlati. Come siamo parlati dalle parole. 
Muoviamo i passi a partire da una sorta di necessaria minima presentazione del funzionamento della forma del discorso.
Di giorno abitiamo una realtà in cui la dimensione cognitiva e le neuroscienze ci dicono che buona parte di ciò che definisce il campo di realtà viene raccolta e selezionata attraverso dei filtri. Delle numerose teorie (Broadbent, Treisman, Deutsch e Deutsch tra gli altri), alcune protendono per una selezione precoce dell'informazione, altre per una selezione tardiva. In ogni caso, una selezione avviene. 
Cosa accade a ciò che non è selezionato? Rimane silente, attivando connessioni che, non raggiungendo il punto di importanza necessario per attivare la dimensione consapevole dell’elaborazione cosciente, sedimentano nel cervello.
Durante il sonno, con il raggiungimento della fase rem, si attiva la dimensione del sogno, del sognare. 
Qui, le parti sedimentate durante il giorno si riattivano, rimescolandosi, interagendo con altre componenti emotive più antiche e/o rimosse, attivando una narrazione cinematografica in cui le immagini si compongono a partire dalla parte non consapevole, non conscia. Si attivano e si combinano a partire da ciò che è inconscio. 
Da ciò che sta “sotto” al conscio.
Il fatto che la psicoanalisi e le neuroscienze dicano sostanzialmente la medesima cosa, solo utilizzando discorsi diversi, ci permette di entrare nell’universo della verità che soggiace a questo "come" (ovvero al significato) che ritroviamo in ogni discorso, sia esso individuale, collettivo o sociale.
Dal momento che non è possibile controllare e direzionare la dimensione inconscia del linguaggio (se lo potessimo fare, non sarebbe inconscia ma consapevole), ne consegue come sia proprio la dimensione inconscia del linguaggio che ci parla, che sostanzialmente muove i significanti del linguaggio a partire dalla profondità.
Questo smuovere i significanti più profondi, sedimentati con maggior forza nel nostro mondo interno, può generare altri modi dell’inconscio di parlarci oltre ai sogni, come ad esempio attraverso i lapsus, gli slittamenti involontari del linguaggio e delle parole.
Ciò che accade dentro, accade anche fuori.
Quello che sempre più spesso accade osservare è come ci sia un generale slittamento nel significato della parole che però non ha nulla a che fare con la dimensione del lavoro del nostro mondo interno, dell’inconscio. Al contrario, è uno slittamento esterno, che nella ripetizione continua e progressiva di parole con un significato alterato, prova a ridisegnare l’universo di significazione profondo. 
Una sorta di attentato alla dimensione etimologica delle parole, a quell'etimo che rappresenta l’anima significante di una parola.
Le parole sono sempre state lì, è lo slittamento progressivo del significato che sposta di posizione chi non se ne occupa, chi non si interroga sul significato profondo delle parole, sulla significanza che introducono nell’uso corrente.
Il come accada tutto questo è correlabile al perché accada, sia accaduto, stia accadendo.
Si dirà che i dizionari esistono da sempre, come esiste l’etimo; e allora come è possibile? 
Appiattite sulla superficialità dell’immagine, molte persone tendono a utilizzare le parole iscrivendole nel significato in cui le hanno sentite, spesso dai media. 
La proliferazione dei social-media, ha avuto, più che un effetto di liberazione, un effetto di bonifica: in un mondo in cui è vero tutto e il contrario di tutto per il solo fatto di apparire come immagine, nulla è davvero vero. 
E’ l'apoteosi dell'atto mancato in cui è lo statuto dell’immagine a farla da padrona.
Dimensione prettamente psicotica, potrà dire qualcuno. Ma non si tratta di una psicosi individuale, con tutto quello che può insegnare rispetto all’abitare la realtà. Si tratta di una deriva psicotica generalizzata, indirizzata, voluta.
Quante volte si è sentito ripetere, a partire dagli anni ’90, termini come “nuovo ordine mondiale”, “globalizzazione”, “”liberismo”? Insieme a queste parole, molte altre sono diventate popolari, trainando in un processo di progressivo spostamento la significazione e la modalità con cui, utilizzando le parole, è possibile rappresentare il mondo.
Un mondo che è stato spinto su piano di rappresentazione tale per cui alcune parole sono dogmi imperanti, veri e propri imperativi che hanno via via cancellato la possibilità dell'altruità, del farsi soggetto davanti all'altro vissuto parimenti come soggetto. 
Le parole sono diventate assolute in una prospettiva che fa dell'efficienza, della supremazia dell'autonomia e dell'indipendenza i dogmi di riferimento, facendo scomparire progressivamente la dignità di farsi altro. Di essere altro.
Con buona pace di Brecht che scriveva come il mondo della relazione, dell'interdipendenza fosse sostanziale: "...è come con il chirurgo: gli ci vuole il malato, per poter fare un'operazione; quindi non è autonomo: è una cosa soltanto a metà, con tutta la sua scienza..."
Forse il “come sia accaduto” ha proprio a che fare con la riscrittura di un mondo a consumo che è a beneficio di checchessia abbia riscritto a monte i significati.
Come è accaduto lo prefigurava già Hegel, quando suggerì nella sua dialettica servo-padrone, come il punto sostanziale non fosse il padrone, ma il servo: è il servo che scivolando sul significante padrone, e del padrone, ne acquisisce sul piano immaginario le modalità e i confini. Non avendo il servo nessuna correlazione con la posizione del padrone, ma acquisendo come propri i significanti padroni, si esautora da una posizione di reale dal poter dire qualcosa di sé. Parlerà di sé attraverso le parole di ciò che è l’immaginario dell’altro.
Decisamente psicotizzante come processo. Ed estremamente diffuso.
Come dicevo all’inizio, tutte le volte che si parla, si parla con le parole, e di parole. In questo processo, la parte interessante è il “come”: come parliamo, come siamo parlati, come siamo parlati dalle parole.
Le parole sono dei forzieri, dei contenitori di tesori costituiti dalle significazioni che contengono. Sono figure retoriche, metafore e metonimie. Lo sono come dato esistenziale. 
Consentono di tenere legati il piano simbolico con quello reale e con quello immaginario. 
Quando uno di questi slitta, sappiamo cosa accade.
Apriamo questi tesori per abitare un incontro con l’altro che sia relazione e non mero mercimonio.
Ricordiamo cosa abbiamo vissuto da bambine/i. Allora si abitava il mondo con una semplicità che l’adulto può a volte trovare disarmante: attraverso il gioco, la modalità assoluta di apprendimento.
Giochiamo. Giochiamo con le parole, il loro etimo, la loro evoluzione storica, e vediamo che quadro viene fuori.
Partiamo da “politicamente corretto”, in cui più che l’avverbio ci interessa la parola “corretto”, che dice nel suo etimo di essere stata disegnata nel modo più preciso possibile, e di fatto rimandando alle intenzioni della mano che disegna le regole.
Regole alle quali l’essere corretto disegna a sua volta un’adesione e un adeguamento. Un po’ quel meccanismo triste che porta alcune/i a dire a bambine/i che l’elefante si colora di grigio, o al massimo di marrone, il cielo è blu e i tetti delle case rossi, e non con i colori liberi che i bambini sanno vedere e immaginare.
Un’altra parola che viene ripetuta fino a svuotarla del suo significato è “liberismo”, che per sua stessa radice riecheggia una libertà che non è più universale, ma unicamente economica e di consumo.
Sono molti i termini che, a discendere da questi, vengono proposti con significazioni mono-direzionali, volte a confermare, implicandoli, solo i significati che sono a vantaggio strumentale di un godimento altro, e dell’altro. Del padrone, non del servo, per dirla alla Hegel.
I significanti entrano sempre in gioco. Null’altro che l’emergere di ciò che è spostato, negato, forcluso. Questo ritorno è un ritrovarsi, in qualche modo. Proprio come accade nei percorsi di cura, in cui accadono epifanie che consentono di ritrovarsi.
Qualche tempo fa una persona disse nel suo discorso libero e associativo che sentiva dentro di sé “…una voce che non è proprio una voce, più un discorso interno, profondo, che arriva da lontano e scava dentro … come nelle buche che si fanno al mare sul bagnasciuga, che se anche non fai nessun movimento, l’onda scava anche se non la vedi arrivare, se non la vedi muovere … gli argini possono vacillare e cadere coprendo ciò che hai scavato, o possono allargare i confini… non è contraddizione, ma un discorso silenzioso…contraddizioni che fanno comunque tenuta … lasciati costruire la struttura del tuo castello di sabbia … resisti … sii resiliente ... ”.
Avevamo giocato con quelle ultime parole: come spesso mi piace proporre, avevamo usato la fisica come una metafora per disvelare quei significati che si erano offerti, nascosti, alla luce del sole.
Parole abusate proprio da quel discorso imperante, ne avevamo colto la divergenza originaria.
'Resistenza', parola che nell’ambito analitico ha tanta portata. Da sempre la intendo, con sfumature divergenti dal modo comune, come la misura della dignità di ciò che cela, e che afferma, celandolo e implicandolo. 
L’etimo mi viene incontro come un dono prezioso: ‘re-sistere’, cioè opporsi allo stare fermi, non cedendo all’urto e alla spinta degli altri. Anche la fisica aiuta: in molti suoi ambiti (dinamica, idraulica, termica, elettrica, magnetica e meccanica) designa la capacità di opporsi (alla deformazione, alla corrente, alla forza) a ciò che il contesto di riferimento impone. 
Suggerisce quindi una posizione e un movimento di tenuta e di reazione attiva e proattiva rispetto a ciò che è sentito intervenire sul proprio bene.
L’altra parola era 'resilienza', una delle parole maggiormente abusate e misconosciute per quel che affermano sostanzialmente nel loro essere ripetute.
Resilienza, da ‘re-silire’, letteralmente un saltare indietro. In ingegneria e in fisica meccanica designa da sempre “il lavoro meccanico necessario a spezzare un materiale mediante un urto o una torsione continua”.
Per evitare confusioni, le virgolette riprendono la definizione ufficiale data dall’Ordine degli Ingegneri di Torino. La parola 'resilienza' indica quindi un termine di un’azione di forzatura e di procurata rottura, e implica la capacità e la quantità di energia utilizzata nell’assorbimento prima di giungere alla rottura.
Il significato originario ci dice con evidenza che ciò che è definito 'resiliente', sia esso una persona, una popolazione o un materiale fisico, è tale se non si oppone all’urto che certa di spezzarlo, ma lo assorbe passivamente.
Non è casuale che il cambio di significazione sia avvenuto proprio a partire dagli anni ’90, che, come abbiamo visto prima, hanno offerto una ridefinizione dello stare al mondo votata al mercantilismo e al mercimonio di qualsiasi cosa, linguaggio e discorso compresi, visto che il processo è avvenuto anche con e attraverso l’uso delle parole.
La sorpresa della persona con cui lavoravo nel constatare come la sua dimensione profonda facesse confusione per lasciar trapelare un malcelato senso di contrasto e di opposizione all’erosione dei significati illuminava il movimento sotterraneo di un inconsapevole sapere di questo progressivo slittamento. Vi si opponeva, internamente, e proponeva una nuova soggettivazione. 
Come disse un’altra persona “… posso lasciare come ‘non mie’ le parole che mie non sono … in questo movimento sento che c’è un posizionamento di soggettivazione … che non essendo assoluto, mi consente una de-soggetivazione che mi fa comunque oggetto delle parole dell’altro … è proprio così, solo un soggetto può de-soggettivarsi, e la strada per farlo ammette il riconoscimento nella reciprocità …".
A ogni passo, la sua orma, e la sua ombra.
Non penso serva scrivere nuovi dizionari, quanto permettersi di permettere a se stessi di trovare un proprio posizionamento. Possiamo lasciare andare le parole che non sono nostre, segnando l’evidenza che sia dell’altro, e spesso, anche d’altro significato.
Lasciarle andare con non proprie, e riprendere ciò che invece ci è proprio, che sentiamo proprio del proprio irripetibile discorso interno. Lasciarle andare aiuta a riconoscere l’altro, nella diversità e nella divergenza, a posizionarsi nel mondo. Un posizionarsi che è interno, e insieme esterno, che permette di colorare con i colori reali che possiamo scorgere nel mondo.

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note e riferimenti: 

la foto è una mia foto di una foto di Margaret Bourke-White dalla mostra antologia presso Camera centro italiano per la fotografia di Torino

Bertolt Brecht, Dialoghi di profughi, 1961

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, la fenomenologia dello spirito, 1807

per gli etimi faccio sempre riferimento al “Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana” di Ottorino Pianigiani nella sua versione online.

































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