i pensieri del dentro 21 - Quale mondo è questo? Quale regno? Quali spiagge, di quali mondi?

“Avete mai confuso un sogno con la vita? O rubato qualcosa pur avendo i soldi in tasca? Siete mai stati giù di giri? O creduto che il vostro treno si muovesse mentre invece era fermo? Forse ero pazza e basta, forse erano gli anni '60 o magari ero solo una ragazza interrotta” 
Sperimentiamo il mondo, momento per momento. 
Sin dalle prime esplorazioni attraverso i sensi del neonato/a, passando per le rappresentazioni assolute della gioventù, arrivando alle riflessioni più complesse della vita adulta fino alla leggerezza della vecchiaia, l’unico modo di abitare il mondo è incontrandolo. 
Durante tutto l’arco della vita sperimentiamo come si sta nella posizione che si occupa nei continui incontri che si ripetono ad ogni istante. 
In ogni singolo momento di tutti quelli che sono dati vivere, sperimentiamo solo poche cose di ciò che quell’esatto momento offre. 
Sperimentare rappresenta una posizione e un movimento bizzarro. Da una parte, è assurto ad azione che definisce per antonomasia una scientificità che si condivide attraverso narrazioni. Dall’altra parte, è un etimo che parla del provare, del tentare, del ricercare di un ‘experire’, e del ‘mentum’, che implica e rimanda al modo, al mezzo e all’atto. Un tentativo, una prova, un modo di saggiare il reale per trovare un posto nel mondo. Per iscrivere il nostro nome nella narrazione del mondo per come lo vediamo dalla prospettiva dei nostri occhi. 
Questa prospettiva definisce il sapere che abbiamo nell’istante singolo in cui lo viviamo. Istante dopo istante. Un solo istante alla volta. 
Sperimentare l’istante, condividerlo attraverso una narrazione implica un incontro con l’altro, e un condividere nell’incontro quella narrazione del reale che sarà sempre e comunque inconoscibile all’altro perché composta da una prospettiva propria e da significati e significanti che possono solo essere offerti e ricevuti, ma sempre e solo compresi da sé. Come ogni istante rimanda a se stesso, e così facendo basta a se stesso, ogni significazione rimanda all'infinito a sè. 
Ricevere le parole dell’altro è, per così dire, una sorta di atto mancato: nel riceverle, non possiamo che farle nostre, inserendole nella nostra catena di significazioni. Una volta parte della nostra catena, la loro comprensione è diventata nostra. Una sorta di appropriazione indebita bonariamente chiamata empatia. 
Tenere questo punto, solo apparentemente paradossale, come precondizione dell’incontro è una modalità piuttosto onesta di abitare la relazione con l’altro. 
Come disse una persona con cui lavoravo, “ho capito che è molto faticoso pensare che tutto ci riguardi solo perché viene detto a noi … sto sperimentando un allargarsi dello spazio per il niente, sto e basta, mi sto abituando a questa nuova condizione dello stare … senza sentirsi attaccati alle parole degli altri, sembra incredibile, ma ci si può stupire di sé …”. 
Le parole sono immagini, e viceversa. Viviamo in un mondo che è così immerso nelle parole e nelle immagini, da far quasi svanire il limite del reale. Nel momento in cui questo confine sembra svanire, in cui, come diceva Sartre “la rappresentazione non aggiunge nulla all’immagine… è nell’immagine”, allora è il corpo che agisce come strumento di selezione. 
Un corpo che abita lo spazio, il tempo, la percezione che si ha di entrambi, e di sé. Il farsi corpo della narrazione che rappresenta l’irripetibile e individuale essere nel mondo si significa per la sua posizione di divergenza o varianza dalla norma. In questo la psicosi ci permette di vedere come questo confine sottile e, a volte, impercettibile, lavori come forma di sapere, e non di credenza. 
Proprio come accade per le bugie, anche il delirio dice sempre una verità. 
Il delirio come forma di sapere, di lettura del mondo, di espressione essenziale, che costituisce come soggetti a prescindere dal reale. 
A differenza della bugia, in cui la realtà è nota ed è coperta espressamente per far credere che non sia, il delirio è un sapere di sé, non un credere di essere, o un far credere di essere (cosa che sta più nel campo della nevrosi). Non si suppone, si è. In una dimensione che appoggia sul piano dell’immaginario. Come in un noto aforisma di Nietzsche, “non è il dubbio, ma la certezza a rendere folli”. 
La fragilità di tale posizione è data dallo sfumare del reale nell’immaginazione, quasi che il reale ne fosse una protesi o una proiezione. Il delirio che si ripete non è una cronicità, ma un rinnovarsi costante della sopravvivenza di fronte a un’angoscia carica di rabbia. Angoscia di fronte all’incontrollabile e inconoscibile delle nostre esistenze, che viene stemperata e ricondotta nella narrazione del delirio, che è comunque reale pur essendo immaginario. 
Siamo in una sorta di paradosso che paradosso non è. Un paradosso apparente. In cui possiamo addentrarci. Senza scomodare credenze complesse e vagamente religiose, entrambe molto delicate, per percorrere la linea sottile che separa l’immaginario dal reale e che sostiene l’impalcatura del delirio, ci dedichiamo a babbo natale. Pur sapendolo essere una figura immaginaria, se ne ripercorre la narrazione per il suo valore simbolico (e non economico), specie in presenza di bambine e bambini. E’ esperienza comune che il suo statuto di realtà tenga finché tiene la narrazione. 
Anni fa mi fu chiesto da una maestra dell’asilo dei miei figli di travestirmi e impersonificare babbo natale. Ricordo la cura nella preparazione: la cucitura del vestito e del cappello, rigorosamente rossi come da iconografia. La ricerca di un adeguato cinturone di cuoio sulle bancarelle del Balôn. La costruzione di una prosperosa barba e di abbondanti baffi con un elaborato patchwork di cotone idrofilo saldamente fissato su una garza. E poi il sacco con i doni composti da frutti e dolci da distribuire e condividere per la festa. 
Ricordo la trepidazione di bambine e bambini nell’attesa che il pomeriggio invernale facesse calare l’oscurità e coprire il mio arrivo. L’arrivo di babbo natale. 
Ricordo le urla di sorpresa e gioia nel momento in cui, attraversato il giardino esterno, varcai la soglia della scuola materna. L’eccitazione dei bambini e il loro circondarmi. 
Ancora più chiaramente ricordo il momento esatto in cui un bambino gridò “…ha gli orecchini come il papà di Lorenzo e Alice, non è babbo natale … è il papà di Lorenzo e Alice !”. Dopo un momento di generale smarrimento, la festa continuò. 
La realtà aveva fatto capolino nel regno dell’immaginario, e il simbolico regalò a quei bambini e bambine un reale abitabile. Con freschezza, leggerezza e gioia. 
Il preciso momento, concitato e accelerato, in cui il reale fa il suo ingresso rendendosi comunque abitabile lo ritroviamo, in forme differenti e spesso più dilatate nel tempo, in tanti percorsi individuali. 
Non si tratta di opporre e imporre la verità del reale, di per sé intangibile, di fronte alla verità dell’immaginario, di per sé assolutamente reale. 
Si tratta di renderlo abitabile, accoglibile, sopportabile. 
Il suo disvelamento è una rivelazione che può avvenire solo all’interno. 
In una incontro impossibile tra Heidegger e Lacan, possiamo vedere come, essendo la lingua a parlare, e non il soggetto, non è alla persona o al grande altro che si parla, ma si parla sempre da soli. Agli altri, a chi ascolta, è dato di ascoltare e significare. Di testimoniare con la presenza del proprio corpo l’esistenza. In questo senso il contatto con il reale diventa un abitare possibile. 
Di fronte al sapere assoluto del delirio (tutti i saperi assoluti evocano e interrogano una qualche forma di delirio), un sapere che si fa assoluto nell’universo dell’immaginario, possiamo sostare in un sapere che nulla può. Il sapere dell’impotenza, che possiamo testimoniare come abitabile. 
Questa testimonianza diventa testimonianza di un sostare, o ancora meglio, di un “so-stare” di fronte all’imprendibile imprevedibilità del reale. 
“Dichiarata sana e rispedita nel mondo. Diagnosi finale: borderline recuperata. Che cosa voglia dire ancora non l'ho capito.. Sono mai sta matta? Forse sì. O forse è matta la vita. La follia non è essere a pezzi o custodire un oscuro segreto. La follia siete voi o io, amplificati: se avete mai detto una bugia e vi è piaciuto, se avete mai desiderato di poter restare bambini in eterno... Non erano perfette ma erano amiche mie. Negli anni '70 quasi tutte erano uscite e vivevano la loro vita. Alcune le ho riviste, altre no, mai più. Ma non c'è un giorno in cui il mio cuore non le ritrovi.” 
...
note e riferimenti: 
Ragazze interrotte, film 1999 tratto da Susanna Kaysen, “La ragazza interrotta”, 1993 

Nicolas Dissez e Cristiana Fanelli (a cura di), il sapere che viene dai folli, quel che la psicosi ci insegna sull’amore, il corpo, il femminile, l’immagine, la libertà, il linguaggio, il sapere, ed. Derive Approdi, 2017 

Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, 1959

Jacques Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, 1966

Jean-Paul Sarte, L’immaginazione, idee per una teorie delle emozioni, 1936-1939 

per gli etimi faccio sempre riferimento al “Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana” di Ottorino Pianigiani nella sua versione online. 








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