i pensieri del dentro 19 - una garza da Ghazza

L’inizio si perde nei decenni che ci videro più giovani.
Penso fossero gli ultimi anni dello scorso millennio, i primi del nuovo. Una delle prime tesi che ho avuto l’onore di seguire. Ma, a dirla tutta, non era iniziato da li. Era iniziato prima.
Era iniziato da un amicizia. Amicizia. Parola che ha radici antiche in amàre, indicando la persona che ama ed è riamata. Una amicizia profonda, che ha superato visioni del mondo a volte anche divergenti, che è andata oltre i capelli che si sbiancano e che cadono, gli stomaci che un po’ si gonfiano. I mille acciacchi della vita. 
Il mio amico è K, palestinese. Tralascio il suo nome appositamente, non per occultare un’amicizia ma per preservare lui e i suoi familiari, i suoi sodali, i suoi cari. Quando abbiamo iniziato a lavorare alla tesi, era il tempo della seconda intifada, primi anni 2000. La tesi era semplice nell’essenziale schiettezza del suo titolo: palestinesi e violenza. Dopo una prima parte introduttiva sul perché, con tutte le indicazioni storiche per dare voce ad una realtà di occupazione illegale e di discriminazione permanente, ci si diresse verso i giovani, e attraverso le loro storie e narrazioni aprimmo a riflessioni sulla natura dei traumi che avevano subito. Che avrebbero continuato a subire. Dare voce a chi era stato silenziato, per aprire in loro una possibilità di costruire comunque un discorso. Comunque e nonostante. 
Lavorando sul campo con ragazze e ragazzi in Cisgiordania e a Gaza, ci si mosse per fare emergere il come di quelle giovani vite vissute, a volte spezzate, spesso frantumate. 
Scrivemmo, o meglio il mio amico K. scrisse, di come i bambini della Cisgiordania fossero inclini ad definire il “Noi” attraverso il senso di appartenenza alla famiglia, alla Famula, mentre i bambini nella Striscia di Gaza si vedevano attraverso l’appartenenza nazionale o religiosa (“siamo palestinesi, siamo musulmani, siamo palestinesi musulmani”). E mentre i bambini della Striscia si definivano come “perseguitati”, in Cisgiordania la definizione del sé era legata alla povertà e alla miseria, malgrado stessero comunque meglio economicamente di quelli della striscia. 
La famiglia era vissuta come fattore di stabilità, solidarietà e unione sociale, oltre ad essere fonte di amore e protezione. I bambini misero l’accento sull’importanza di stare uniti e di aiutarsi mutuamente ogni qual volta lo richiedessero le circostanze. 
La dimensione del tempo aveva preso un suo peculiare significato. Passato, presente e futuro erano parole potenti, e aprivano un mondo.E ne chiudevano altri. 
Per i ragazzi e le ragazze più grandi, che avevano vissuto la prima intifada negli anni ottanta, era un argomento tabù, di cui non si voleva o poteva parlare, essendo troppo doloroso. Era la generazione che aveva vissuto il massacro del campo profughi di Sabra e Chatila nel 1982 e della moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme del 1990. Per i più piccoli, c’era ancora una memoria di svago e di gioco. 
Rispetto al presente, anche se in molti diedero risposte illusorie per evitare emozioni troppo dolorose, era già allora definito come difficile, non buono, necessitante di un cambiamento che evitasse la repressione arbitraria subita. 
Il futuro era già dilatato e dilaniato, differenziato dalle possibilità di vita imposte dall’occupazione. Se in Cisgiordania c’era una prospettiva di futuro, legata allo studio e ad una professionalità che si poteva costruire anche all’estero per poi tornare ad aiutare la propria gente, nella striscia di Gaza la mancanza di prospettive appiattiva il futuro sulla sopravvivenza, imbrigliato come era nella chiusura forzata in un ghetto-prigione a cielo aperto da cui nessuno poteva uscire. 
La percentuale di ragazze e ragazzi che dichiararono di aver paura di uscire di casa in modo permanente sfiorava il 30%. Vissuti di ansia, fobie e attacchi di panico erano già molto diffusi, oltre il 50%. E poi claustrofobia, difficoltà a dormire e a sognare. Enuresi notturna.
Questo era quanto. Venti e più anni fa.
Prima dell' "operazione scudo difensivo" a Jenin e in Cisgiordania del 2002, e di quelle che si sono succedute su Gaza nel 2004, 2006, 2008, 2009, 2012 e 2014. Prima di adesso.
La tesi del mio amico K. fu scritta venti anni fa, giorno più, giorno meno.
Da li l’idea e la pratica di portare una voce che facesse discorso, nonostante la situazione, e per arginarla. Idea e pratica di dare forza, supporto e gambe ad un centro giovanile in Cisgiordania nel campo profughi di Aida. Amal El-Mistaqbal, questo il suo nome. Esiste, resiste, tuttora.
Idea e pratica per un centro di supporto psicologico, per dare uno spazio ai tanti che soffrivano di sindromi post traumatiche a Gaza. Inutile dire che non esiste più. Il centro non esiste più. Distrutto e raso al suolo, come la città e la striscia. I traumi e le sindromi post-traumatiche esistono ancora, moltiplicate per mille, duemila, 34mila. Sono arginate solo dalla morte subita. 
Non ci sono garze, né reali né metaforiche, che tengano. 
Garze. 
La parola “garza” deriva dalla parola araba “Ghazza”, perché è da Gaza che proviene, da un arte di fine tessitura antica di millenni. 
Rimangono due domande, come ha ricordato Emily Berry. 
Quante delle nostre ferite sono state curate grazie a loro. Quante delle loro sono rimaste aperte a causa nostra. Del silenzio e dell’indifferenza. 
Due domande che sono affermazioni assolute per chi è solidale, e non ha paura. Per chi sfida la vita. Per chi tiene le chiavi strette nelle mani. Pronti a tornare. 













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