i pensieri del dentro 23 - cause = time , ovvero null'altro che abitare l'essere e il tempo secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg
“Raccontiamo storie perché … le vite umane hanno bisogno e meritano di essere raccontate … tutta la storia della sofferenza grida vendetta e domanda di essere raccontata … “- Paul Ricoeur -
La dimensione del tempo è da sempre dimensione di pensiero, di sogno, di dolore, di fantasia, di epifania, di parola. Letteralmente, è così da sempre. Quasi a dire, da che il tempo esiste.
Il tempo, come altri aspetti della vita, rappresenta qualcosa che appartiene a tutte/i, senza che nessuno mai possa realmente afferrarlo.
Il tempo. Diverso. Uguale. Sfuggente. Immanente. Esiste ed insiste nel suo essere esattamente ciò che è, tempo. Anarchicamente, rifugge i tentativi di imbrigliarlo nel conteggio e nel controllo che prefigura la produzione, l’efficienza e il consumo.
Da provato luddista, scardina la custodia di lancette e orologi con la sua falsa illusione di universalità e di controllabilità. Di una conteggiabilità che iscriverebbe il tempo in una dimensione unicamente economica, dato che il solo conteggiarlo già rende il tempo vendibile. E spendibile, nel suo essere tempo perso o tempo guadagnato.
Al di fuori della dimensione del tempo come capitale economico, che si guadagna, si accumula, si spreca, si sperpera e si perde, esiste una dimensione in cui il tempo, semplicemente, si vive.
Già tornare ad Anassimandro consentirebbe di aprire un primo spiraglio pacificatore, che ci parla della necessarietà che ci sia sempre un inizio per ogni conclusione, e dell’implicarsi di ogni fine in ogni nuovo inizio.
Null’altro che una sequenza continua di prima e di poi, come ci racconterà Aristotele. Una sequenza ciclica di prima e di poi in cui si esiste. Uno spazio di tempo circolare in cui esistere. E’ già tutto implicato in queste brevi affermazioni, in uno sguardo che spazia dal ghiaccio che si scioglie ai vulcani spenti che si rincorrono a perdita d’occhio. Uno sguardo che unisce e avvicina Heidegger a Einstein.
Il tempo è essere.Il tempo è stato.Il tempo è essere stato.Il tempo è ciò che sarà stato.Il tempo è ovunque, ed essendo ovunque, il tempo è anche spazio.
Uno spazio da abitare, che nutre e si nutre del modo prettamente individuale che ognuno ha di abitarlo.
Permettersi di lasciare la logica capitalista del tempo significa autorizzarsi a lasciare andare l’imperativo dell’accumulazione, della rincorsa al riempire il tempo di …. cose.
Il tempo, come l’essere, si nutre della propria stessa immanente esistenza, articolandosi nella lentezza che rende le parole scandibili, intelleggibili.
Il tempo si articola in una grammatica pura che permette all’essere di farsi copula, segnando la via ad un possibile orgasmo, all’epifania dell’incontro con sé e con l’altro che delimita lo scambio comunicativo, l’atto mancato per antonomasia.
Come segnalava Lacan, “Ogni atto mancato è un discorso riuscito.” Proprio come nel caso del rapporto sessuale, anche nel rapporto comunicativo non è mai possibile fare Uno con l’Altro.
L’essere che si articola nel tempo è un farsi copula in cui la diversità delle parti rimane incolmabile, sia che si tratti dei partner di un rapporto sessuale, sia che si tratti dei significati e significanti di un rapporto comunicativo. Rapporti che di fatto non lo sono mai.
Di fatto, questo essere nel tempo si rispecchia in un gioco continuo di rimandi che occultano, in una sorta di perenne atto mancato, in cui la parola non può che permettersi di delinearlo, di disegnare limiti e confini del tempo come dell’essere, senza mai davvero poterli definire. Senza mai poterli possedere. Senza mai poterli indicare e fissare. Senza mai poterli inscatolare in un orologio, in una cronistoria, in un discorso che faccia di qualcosa che scorre un discorso finito e fisso.
In una forma particolarmente affascinante, passata alla storia come la famosa “interpretazione di Copenaghen” basata sui lavori di Bohr e di Heisenberg, è espresso come la realtà sia la risultanza dell’interazione fra osservatore ed osservato.
Significa che il sistema di credenze dell’osservatore determina l’esistenza della realtà nella forma in cui crede che sia.
Non solo la fisica quantistica, ma la stessa esperienza comune ci dice come la dimensione del tempo, così come quella dell’essere e della realtà, non sia mai del tutto inscrivibile nel linguaggio: nel momento stesso in cui la parola esprime qualcosa del tempo, dell’essere e/o della realtà, questa è mutata per il solo fatto di essere stata in qualche modo narrata.
Se l’atto della parola, del parlare e del costruire una narrazione a partire dall’atto di parola, non può mai definire una realtà che nel frattempo è cosa altra, proprio come non potrà mai definire un tempo senza che questo sia già passato, allora ne consegue che la dimensione del tempo, come dell’essere, nel suo diventare copula, cioè atto comunicativo, non sia mai data per conclusa, un atto mancato. Un atto mancante.
Mancante nel senso che descrivere il qui e ora è possibile unicamente nella misura in cui nel dire “qui e ora” siamo già in un tempo e in uno spazio che qui e ora non è più, ma è già altrove, è già qualcosa d’altro.
Ritroviamo la conferma dell’interpretazione di Copenaghen e della fisica quantistica nelle parole di Alice:
“Se io avessi un mondo come piace a me, là tutto sarebbe assurdo: niente sarebbe com’è, perché tutto sarebbe come non è, e viceversa; ciò che è, non sarebbe, e ciò che non è, sarebbe. Chiaro?”
Sembra un gioco di parole, ma non lo è: è proprio questo essere perennemente altrove del tempo e dell’essere, questo essere qualcosa d’altro che segna la mancanza sostanziale e strutturale che definisce la possibilità dell’interazione.
Di una azione, cioè, in cui ci si muove nella direzione di un abitare un tempo e uno spazio che si sposta per fare spazio, per permettere sempre quel passo che separa da ciò che non si può mai raggiungere.
Il paradosso di Zenone ci racconta come il tempo abbia una velocità che scorre inesorabile, lasciandoci perennemente indietro. Non appena pensiamo o sentiamo di aver colto qualcosa, il tempo ha già fatto un passo avanti, proprio come Achille condannato a mai raggiungere la tartaruga.
Il paradosso di Zenone, raccontato da Aristotele nel libro V della Fisica, ci dice come «…nel momento in cui Achille, concorrente più veloce, parte dopo la tartaruga, concorrente più lento nella corsa, quest'ultimo non sarà mai raggiunto dal più veloce perché l'inseguitore prima sarebbe costretto a raggiungere il luogo da cui quello che fugge ha preso le mosse, e intanto, di necessità, il più lento sarà sempre un po' più avanti.»
Quello di Zenone è un paradosso, e come tale va preso nel suo farsi parte di un discorso più generale, che ci consente di relativizzare le posizioni e le equazioni che ci connettono agli altri.
Nel lavoro di cura, che sia con i gruppi o con singole persone, o ancora che sia in una posizione di genitorialità, mi piace ripetere che una posizione definisca e si definisca come un ruolo o un mestiere, ma che il lavoro lo facciano sempre e comunque i gruppi, o le persone, o i figli e i nipoti. Che il focus sia nella dimensione dell’altro.
Come ci ricorda la fisica quantistica, la sola presenza dell’osservatore definisce ciò che sarà reale, ovvero l’esistenza della realtà nella forma in cui si crede che sia dal punto in cui e da cui la si guarda.
Appare importante introdurre questi pensieri nel discorso della cura. Il loro effetto è altrettanto importante dal momento che tende a limitare l’aura di ego-centratura del professionista, o del genitore, e a lasciare la responsabilità di campo a ciò che il soggetto può autorizzarsi ad osservare, a vedere, a fare proprio.
In un’espressione che spesso suscita perplessità, mi piace ripetere che come genitori, insegnanti o formatori, come professionisti della cura, la nostra unica utilità è nell’essere assolutamente inutili.
La nostra supposta utilità si dispiega nell'essere assolutamente inutili, ed in questo sta l'essenzialità.
A rischio di richiamare Zenone di Elea, la nostra utilità è data dalla finitezza della nostra posizione, che non ha come movimento di rimandare un qualcosa di una qualche verità all’altro, ma di consentire all’altro di sviluppare il proprio discorso, di autorizzarsi ad incontrare la propria verità.
Come dicevo prima, l’utilità della posizione sta nella sua inutilità, in una dimensione effimera che è reale, immaginaria e simbolica insieme, che permetta all’altro di fare i propri passi, qualunque essi siano, in quella che è e sarà sempre la modalità irripetibile e individuale di abitare il proprio essere e il proprio tempo. In un modo, e in un mondo, che pur essendo sempre il medesimo, sarà anche palesemente nuovo.
Non è cosa semplice fare il passo, e il passaggio, verso un mondo nuovo di essere partendo dall’abitudine di vivere il tempo a ritroso, ovvero proiettando sul presente o sul futuro quello che ben si conosce del passato.
Qualche tempo fa, una giovane donna che aveva vissuto le cicatrici, sia metaforiche che reali, di un’infanzia dolorosa, descrisse in maniera davvero cristallina il circuito, e il corto-circuito in cui era stata confinata dalla violenza subita negli anni.
Disse “…ero come posseduta, ma non nel senso religioso, lo ero nel senso che non mi appartenevo più, ero in loro possesso … è dannatamente difficile interrompere il circolo vizioso … conosco fin troppo bene la modalità storica fatta di paura, angoscia e violenza, ma non conosco ancora quella nuova, e questo mi fa paura, e la paura riattiva la modalità storica…”.
Quando viene sottratta la padronanza di sé, quando non si è padroni di nulla, è difficile non trovarsi in una posizione di servitù, non inciampare in Hegel, non scivolare nell’essere posseduti da qualcun altro. Ma ciò che è passato può essere vissuto come tale, cioè come passato. Può essere, lentamente e dolorosamente, lasciato andare.
Quando dico dell’importanza di lasciare andare il passato, mi riferisco ad una modalità di abitare il tempo e l’essere in un tempo che sia nostro davvero.
A differenza dei gamberi, che sono animali che procedono a ritroso, possiamo permetterci di volgere lo sguardo, e con esso il nostro discorso, da ciò che è stato e che bene conosciamo come male, a ciò che ancora non conosciamo, a ciò che sarà.
Questo passo e questo passaggio non ha nulla a che spartire con un movimento di negazione né di rimozione, che sono per loro natura movimenti che inchiodano il passato in un presente storico che ripete all’infinito la litania di cosa dovremmo essere sulla base di quanto qualcuno d’altro ha stabilito, nemanco fosse un debito.
Una giovane madre lesse questo meccanismo con semplice chiarezza: “… quando qualcosa di qualcun altro viene spacciato per mio, c’è sempre qualcosa di mio che viene meno … a questo punto, c’è un salto da fare, un salto che posso fare … posso ripensare le cose con calma, le posso correggere non nel senso di tornare indietro, ma di cambiare il tempo, la grammatica, e con queste il significato della loro narrazione così da non essere perennemente incatenata nel passato, ma provare a poter essere dove voglio essere, almeno il più possibile …”.
Esiste sempre una dimensione del tempo che può essere recuperata in nuove significazioni, che può essere scritta, e inscritta, in nuove narrazioni che tengano il passato come tale, come tempo storico che segnala, e fa segno, di momenti della storia.
Possiamo riconoscere all’essere e al tempo un loro peculiare divenire, permettendo alla persona una ripresa di soggettività all’interno della grammatica di una narrazione che costituisca, ad ogni passo, il prossimo passo nel percorso dell’identità.
Dell’essere. Dell’essere chi si è, in cui il domani è la misura nel tempo di ciò che sarà stato in un qui e ora che continuamente tutte/i abitiamo.
Come scriveva Ricoeur “… il tempo diviene umano nella misura in cui viene espresso secondo un modulo narrativo … il racconto raggiunge la sua piena significazione quando diventa una condizione di esistenza temporale…”.
Tempo ed essere tornano a rincorrersi, a definirsi reciprocamente, ad aprire possibilità di soggettivazione, a disvelare quella storia irripetibile e individuale di cui essere soggetti, incontrando una responsabilità colma di dinamica, umanità e movimento nella vita.
Come insegna il principio di indeterminazione di Heisenberg, non solo nessuno/a può essere distaccato dal sistema che osserva e in cui abita, non solo ognuno/a ne fa parte, ma sostanzialmente lo condiziona solo per il fatto di interagire con esso, di abitarlo.
Rendere questo principio di fisica quantistica spazio e opportunità di vita significa aprire alla possibilità di ogni persona di abitare il proprio essere, il proprio tempo, la propria unica e irripetibile narrazione dell’esistenza.
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note e riferimenti:
Broken Social Scene, ‘Cause = time’, da ‘You forgot it in people’, 2002
Paul Ricoeur, Tempo e racconto, 1983
Aristotele, Fisica, IV secolo a.C.
Martin Heidegger, Essere e tempo, 1927
Albert Einstein, Über die spezielle und allgemeine Relativitätstheorie , 1916
Jacques Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, 1953
Jacques Lacan, Seminario XX, 1972-1973
Lewis Carroll, Alice nel Paese delle meraviglie, 1865
Werner Heisenberg, Physikalische Prinzipien der Quantentheorie, 1930
per gli etimi faccio sempre riferimento al “Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana” di Ottorino Pianigiani nella sua versione online.
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