Padri e dolore: una conversazione con Krystyann Krywko sul crescere un bambino con perdita uditiva
Quello che segue è la traduzione di un'intervista che Krystyann Krywko mi ha
fatto ed ha postato sul suo blog "www.kidswithhearingloss.org" (bambini con perdita uditiva) a fine luglio.
Ho
leggermente adattato al discorso italiano la versione originale
dell'intervista.
Chi volesse leggerla nella sua versione originale, insieme a moltissimo materiale davvero prezioso sul rapporto tra sordità e genitorialità, la può trovare sul blog di Krystyann Krywko qui: Fathers and Grief: A Conversation with Paolo Brusa on Raising a Child with Hearing Loss.
Chi volesse leggerla nella sua versione originale, insieme a moltissimo materiale davvero prezioso sul rapporto tra sordità e genitorialità, la può trovare sul blog di Krystyann Krywko qui: Fathers and Grief: A Conversation with Paolo Brusa on Raising a Child with Hearing Loss.
Ecco la traduzione adattata dell'intervista:
«Tornata dalle ferie estive, Krystyann Krywko ha continuato a pubblicare i suoi post relativi all'esperienza del crescere dei figli con disabilità uditiva, andando a chiudere la serie dedicata ai padri che era iniziata nello scorso mese di giugno.
Abbiamo
scambiato una serie di mail per costruire insieme una conversazione
sul come i padri affrontino il dolore per la scoperta
della sordità del proprio figlio/a, un focus specifico su
cui non è presente molta letteratura. Non solo infatti ci sono
pochissimi studi che si concentrano sul legame tra il dolore e la
perdita dell'udito, ma i pochi che Krystyann ha reperito sono
concentrati sulle reazioni delle madri.
Per contribuire a colmare questa lacuna, Krystyann mi ha contattato e ne è nata una conversazione che Krystyann ha pubblicato sul suo blog, partendo dalla mia presentazione: un collega psicologo, sposato, con due figli di 9 anni e 7 anni.
Al più piccolo è stata diagnosticata una ipoacusia grave bilaterale all'età di circa due anni. Nonostante le miglia di oceano che ci dividono, abbiamo trovato molte similitudini nella nostra esperienza sia professionale che personale, a partire dalla comunanza di diagnosi estremamente tardive.
La mia attività di psicologo, unita a quella di mia moglie di psicoterapeuta e psicodrammatista junghiana, mi ha permesso di sviluppare un approccio di cura e supporto in grado di affrontare e analizzare le emozioni nello stesso momento in cui vengono vissute, senza preconcetti e giudizi valoriali, ma accogliendole per ciò che sono: semplici, e complesse, emozioni. Ecco la nostra conversazione.
Grazie Paolo per aver dedicato del tempo per parlare con me dell'esperienza di crescere un figlio. Può essere difficile da tradurre in parole il mix di emozioni che vengono provate al momento della diagnosi di sordità, o in generale di disabilità, del proprio figlio/a. Le emozioni sono spesso contraddittorie, e si manifestano come inondazioni impreviste, imprevedibili. Quale è stata la tua esperienza?
Ho sperimentato molte e diverse emozioni. La mia reazione, così come il mio vissuto, ne è stata spesso un misto, cosa che è abbastanza comune. Provo a schematizzarle velocemente, sapendo che questo significa semplificare la complessità emotiva, ed è importante che il lettore ricordi che le seguenti emozioni si sono manifestate in modo estremamente intenso, rincorrendosi e contaminandosi tra loro. A partire dal momento della diagnosi, e poi nel tempo, le emozioni più intense sono state:
Per contribuire a colmare questa lacuna, Krystyann mi ha contattato e ne è nata una conversazione che Krystyann ha pubblicato sul suo blog, partendo dalla mia presentazione: un collega psicologo, sposato, con due figli di 9 anni e 7 anni.
Al più piccolo è stata diagnosticata una ipoacusia grave bilaterale all'età di circa due anni. Nonostante le miglia di oceano che ci dividono, abbiamo trovato molte similitudini nella nostra esperienza sia professionale che personale, a partire dalla comunanza di diagnosi estremamente tardive.
La mia attività di psicologo, unita a quella di mia moglie di psicoterapeuta e psicodrammatista junghiana, mi ha permesso di sviluppare un approccio di cura e supporto in grado di affrontare e analizzare le emozioni nello stesso momento in cui vengono vissute, senza preconcetti e giudizi valoriali, ma accogliendole per ciò che sono: semplici, e complesse, emozioni. Ecco la nostra conversazione.
Grazie Paolo per aver dedicato del tempo per parlare con me dell'esperienza di crescere un figlio. Può essere difficile da tradurre in parole il mix di emozioni che vengono provate al momento della diagnosi di sordità, o in generale di disabilità, del proprio figlio/a. Le emozioni sono spesso contraddittorie, e si manifestano come inondazioni impreviste, imprevedibili. Quale è stata la tua esperienza?
Ho sperimentato molte e diverse emozioni. La mia reazione, così come il mio vissuto, ne è stata spesso un misto, cosa che è abbastanza comune. Provo a schematizzarle velocemente, sapendo che questo significa semplificare la complessità emotiva, ed è importante che il lettore ricordi che le seguenti emozioni si sono manifestate in modo estremamente intenso, rincorrendosi e contaminandosi tra loro. A partire dal momento della diagnosi, e poi nel tempo, le emozioni più intense sono state:
- tristezza, che ha preso la forma del dolore per la profonda consapevolezza di come tutto sarebbe stato difficile da quel momento in poi. Questa sensazione di dolore era principalmente rivolta a mio figlio, ma anche a mia figlia, a mia moglie, ed a me stesso. È stata una forma particolare di tristezza, che si ammantava di una intensa e profonda malinconia, in una forma molto peculiare. Non era malinconia per qualcosa che era stato e non era più (l'idea del figlio del genitore); era una malinconia pervasiva e “proattiva”, in un certo senso, collegata non ad un ricordo passato, ma a tutte le possibilità future che erano state radicalmente annullate, che erano scomparse, nell'esatto momento della diagnosi
- chiarezza: quasi in parallelo con questo senso pervasivo di malinconia, il momento della diagnosi ha portato anche una sensazione di limpida chiarezza su quale fosse il problema, e questa emozione è stata rassicurante, in un certo senso. Poter esprimere il pensiero “ora sappiamo” è un fondamentale momento per superare l'angoscia, perché consente di nominare ciò che ci sta dinanzi. Parallelamente a questa certezza, il momento della diagnosi apre a migliaia di nuove domande, alcune pertinenti, altre meno. Sarà in grado di imparare? Parlare? Quale sarà il futuro? Queste e tante altre domande simili sono nate quasi all'improvviso, dato che, come tanti genitori, non avevamo 'davvero' idea di cosa volesse dire non poter sentire. Dopo aver imparato, come tanti, la complessità della genitorialità, stavamo ricominciando da zero.
- responsabilità, in una forma quasi fisica. È stato un momento di grande intensità il percepire un profondo senso di responsabilità, che era contemporaneamente specifica e generale. Responsabilità per mio figlio, nel senso del supporto e nutrimento, cercando di evitare la trappola del diventare apprensivi prima, pesanti e bloccati poi. Un profondo senso di responsabilità verso mia moglie, il cui dolore di madre era profondo e tangibile. Una profonda responsabilità per mia figlia, che aveva diritto, oltre che bisogno, di tutto l'amore, l'attenzione e la cura, senza distrazioni
- rabbia, tanta, all'inizio, e non solo; e anche l'odio a volte. Due sentimenti spesso culturalmente misconosciuti, spesso negati da finti presupposti di falso buonismo culturale, ma che si manifestano vividi al pensiero della diagnosi tardiva e di tutto il tempo che è stato perso da medici più interessati a difendere la propria categoria che a curare la sordità, ammettendo l'errore compiuto nelle analisi alla nascita. Questi sentimenti ritornano ogni qual volta ci si scontra con le assurdità della burocrazia, i tagli ai diritti e la malafede che vi sottosta.
- consapevolezza. C'era anche una strana sensazione di consapevolezza, una sorta di mix tra profonda pace interiore, conoscenza, realizzazione. Anche se non è ovviamente possibile avere una idea precisa di tutti i “come”, sapevo profondamente che sarebbe stato difficile, che alcune possibilità di vita erano sparite per sempre. Molte cose sarebbero state diverse, e complesse, e difficili per certi versi. Sapevo anche che non c'era nulla che potessi fare a tale proposito. Allo stesso tempo c'era anche una sensazione profonda: la consapevolezza che le cose più importanti nella vita sono legate alla qualità della vita che viviamo, che ci autorizziamo a vivere. La domanda "Sarà felice?" non è pertinente, non dipende da me. La felicità dei figli non dipende mai dal narcisismo dei genitori. Non siamo quello che manca, e tutti, sempre, siamo mancanti di qualcosa. Ma possiamo diventare ciò che siamo.
Photo
credit: Scott Akerman
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Queste
sono davvero molte emozioni da elaborare, e mi ricordo di essere
anche io passata attraverso reazioni simili. Pensi che il tuo lavoro
di psicologo ti abbia aiutato in questo processo?
Non
ero proprio da solo, c'era un'altra cosa che sapevo. Alcuni anni fa
ho lavorato come psicologo responsabile di due progetti finanziati
dalla Commissione Europea, lavorando con famiglie di persone con
gravi disabilità. Durante uno scambio internazionale a Gjion, i
genitori di alcuni ragazzi/e con acondroplasia mi hanno ricordato un
paio di principi base: il primo recitava “este istante es tu tesoro”, ovvero “ogni istante è un tuo prezioso momento”.
La seconda cosa che mi hanno insegnato a Gijon è una piccola magia: l'ironia che incontra la rabbia e il dolore per trasformarsi in forza.
Queste persone meravigliose sintetizzano con l'espressione “PuMaS” la forma dell pensiero che viene pensato al momento della diagnosi. Mi hanno convinto immediatamente, ed è diventata anche una mia espressione, una mia filosofia. L'espressione PuMaS evoca il puma, animale totemico a cui viene attribuito il significato di forza, costanza, coraggio, e che viene disegnato per la sua capacità intuitiva, istintuale, fiera, vigorosa e al contempo protettiva e amorevole con la prole. Una bella immagine, costruttiva e rassicurante del mestiere del genitore espresso ad un livello profondo. In più PuMaS è acronimo dell'espressione “Puta Mala Suerte”. Rabbiosa, sferzante, ironica, perfetta. Un'affermazione di rabbia, ma anche di accettazione di ciò che la vita porta, e un memento sulla scelta che ognuno ha difronte a se: passare tutta la vita fissandosi su un destino amaro, o accettarlo e andare oltre, aperti a ciò che potrà essere comunque e nonostante, con determinazione, coraggio, forza, dignità e affetto.
Quell'esperienza mi ha ricordato in modo lampante un principio che ho sempre sostenuto: il destino individuale è qualcosa di totalmente diverso dal problema di un individuo. Penso che queste esperienze mi abbiamo aiutato ad accogliere le emozioni per quanto avrebbe potuto portare il futuro.
Sulla base delle tue competenze ed esperienze come psicologo, pensi che gli uomini affrontino il dolore in modo diverso dalle donne, dalle madri?
Una volta che gli uomini si lasciano pervadere dal processo del dolore, non penso che ci siano molte differenze. Sono abbastanza convinto che le differenze abbiamo a che spartire con un insieme formato da stereotipi culturali, su cui si innestano ranghi prettamente di genere; dalla consapevolezza di questo insieme deriva la possibilità o meno che gli uomini riconoscano e affrontino il loro dolore.
La seconda cosa che mi hanno insegnato a Gijon è una piccola magia: l'ironia che incontra la rabbia e il dolore per trasformarsi in forza.
Queste persone meravigliose sintetizzano con l'espressione “PuMaS” la forma dell pensiero che viene pensato al momento della diagnosi. Mi hanno convinto immediatamente, ed è diventata anche una mia espressione, una mia filosofia. L'espressione PuMaS evoca il puma, animale totemico a cui viene attribuito il significato di forza, costanza, coraggio, e che viene disegnato per la sua capacità intuitiva, istintuale, fiera, vigorosa e al contempo protettiva e amorevole con la prole. Una bella immagine, costruttiva e rassicurante del mestiere del genitore espresso ad un livello profondo. In più PuMaS è acronimo dell'espressione “Puta Mala Suerte”. Rabbiosa, sferzante, ironica, perfetta. Un'affermazione di rabbia, ma anche di accettazione di ciò che la vita porta, e un memento sulla scelta che ognuno ha difronte a se: passare tutta la vita fissandosi su un destino amaro, o accettarlo e andare oltre, aperti a ciò che potrà essere comunque e nonostante, con determinazione, coraggio, forza, dignità e affetto.
Quell'esperienza mi ha ricordato in modo lampante un principio che ho sempre sostenuto: il destino individuale è qualcosa di totalmente diverso dal problema di un individuo. Penso che queste esperienze mi abbiamo aiutato ad accogliere le emozioni per quanto avrebbe potuto portare il futuro.
Sulla base delle tue competenze ed esperienze come psicologo, pensi che gli uomini affrontino il dolore in modo diverso dalle donne, dalle madri?
Una volta che gli uomini si lasciano pervadere dal processo del dolore, non penso che ci siano molte differenze. Sono abbastanza convinto che le differenze abbiamo a che spartire con un insieme formato da stereotipi culturali, su cui si innestano ranghi prettamente di genere; dalla consapevolezza di questo insieme deriva la possibilità o meno che gli uomini riconoscano e affrontino il loro dolore.
Tra
gli stereotipi e i pregiudizi culturali inserisco un'idea antica, che
gli uomini siano duri e forti, e che non possano permettersi di
mostrare le proprie emozioni. Come tutti gli stereotipi e i
pregiudizi, è inutile negarli. Nelle culture in cui questa visione di
genere è ancora presente, va accettata, affrontata, e, ovviamente,
superata. È importante per gli uomini imparare ad essere consapevoli
delle emozioni. Anche gli uomini possono educare se stessi a
guardarsi in profondità, a non temere le emozioni, a goderne,
qualunque esse siano, lasciando dietro di sé ogni giudizio, e
pregiudizio. È davvero importante autorizzarsi ad essere
trasparenti, con sé stessi prima di tutto, e poi lasciare che il
proprio partner possa vedere cosa l'uomo sente, a cosa stia passando
attraverso.
Come possono i padri cominciare ad accettare, e a lavorare, con le emozioni che sentono?
Come possono i padri cominciare ad accettare, e a lavorare, con le emozioni che sentono?
In generale, semplicemente dicendo la
verità: a se stessi; alle loro mogli e partner; ai loro figli. Nel
mio lavoro ripeto sempre che le emozioni sono solo emozioni, e che
invece di cercare di lavorare contro di loro, possiamo imparare a far
fronte con loro a ciò che la vita ci porta.
Inoltre, credo che l'accettare e l'elaborare le emozioni permetta a tutta la famiglia di aprire nuovi percorsi di accettazione e di consapevolezza.
Perché queste nuove possibilità possano emergere, è necessario mantenere uno spazio dentro di sé, uno spazio da non-colmare.
Occorre accettare l'esistenza come essere-mancante, accogliere in noi una mancanza. Diversamente, se si è sempre pieni, sempre protesi a controllare e colmare ogni cosa, si rimane bloccati nelle proprie emozioni, e difficilmente ci sarà spazio per noi, e per chi ci circonda.
Questo vale per gli uomini, ma ovviamente anche per le donne.
Questo porta direttamente alla mia prossima domanda. Come possono i padri "sbloccarsi" rispetto al dolore che sentono?
Inoltre, credo che l'accettare e l'elaborare le emozioni permetta a tutta la famiglia di aprire nuovi percorsi di accettazione e di consapevolezza.
Perché queste nuove possibilità possano emergere, è necessario mantenere uno spazio dentro di sé, uno spazio da non-colmare.
Occorre accettare l'esistenza come essere-mancante, accogliere in noi una mancanza. Diversamente, se si è sempre pieni, sempre protesi a controllare e colmare ogni cosa, si rimane bloccati nelle proprie emozioni, e difficilmente ci sarà spazio per noi, e per chi ci circonda.
Questo vale per gli uomini, ma ovviamente anche per le donne.
Questo porta direttamente alla mia prossima domanda. Come possono i padri "sbloccarsi" rispetto al dolore che sentono?
Ogni
volta che una persona sta vivendo una situazione di grande
difficoltà, è normale e fisiologico volersi ritirare verso un luogo
in cui sentirsi più sicuri e fiduciosi. Questo movimento
rassicuratorio rispetto al dolore e all'angoscia implica un certo
grado di altre difese oltre allo spostamento, come la negazione della situazione. Spesso
ripeto come, oltre a dare dignità alle nostre emozioni, tutte,
possiamo autorizzarci anche a riconoscere e dare dignità alle nostre
difese, tutte.
Naturalmente alcune delle domande più comuni espresse dai genitori di un bambino sordo riguardano la possibilità per il figlio/a di poter mai ascoltare e comunicare. Anche nei casi di diagnosi efficaci già alla nascita, e di tempestivo impianto cocleare, il bambino può trovarsi in un'età in cui semplicemente non può "propriamente" comunicare per rassicurare i propri genitori.
In questi casi suggerisco agli uomini, come alle donne, di concentrarsi sulla dimensione corporea, di imparare a “sentire” il proprio corpo, e attraverso il corpo, individuando nuove modalità comunicative per stabilire un contatto diretto con il proprio bambino/a sordo. Questa è un'altra cosa che ripeto spesso nel mio lavoro: il corpo è uno scrigno meraviglioso e prezioso, e spesso la nostra cultura ce lo fa scordare. Occorre solamente re-imparare ad ascoltarlo. E questo vale anche, e soprattutto, quando si parla di sordità.
Per visualizzare la semplicità e l'impatto emotivo del corpo che parla-e-sente, proviamo a pensare al momento che precede la nanna.
Tradizionalmente, è il momento in cui i genitori instaurano una ritualità di saluto, consolatoria e dolce, attraverso la lettura o il racconto di storie, o con il canto di litanie e ninne-nanne. Questo momento si può tranquillamente costruire anche con un bimbo/a sordo.
Quando il padre legge una fiaba o canta una ninna nanna, può appoggiare il proprio bambino/a sul petto, stabilendo un contatto corporeo diretto, pelle su pelle. Stabilito questo contatto corporeo, i genitori possono iniziare a raccontare con delicatezza una storia, a cantare una ninna-nanna. I bambini piccoli, che già utilizzano il tatto e la pelle come modalità prevalente di interazione con il mondo, è naturale appoggiare il capo, il petto, le mani sul petto del padre. Naturalmente il bambino/a si abbandonerà alla percezione delle vibrazioni, da cui si farà coccolare.
Questo semplice esercizio rappresenta la base logica di qualsiasi processo comunicativo: trasmettere qualcosa in un modo o in un altro, da una persona ad un'altra. Quando i padri sperimentano questo modo di comunicare con il proprio bambino/a, tendono a scoprire come le emozioni siano preziose, come possano accettarle con semplicità e farne tesoro. Si scoprono "sbloccati", e possono liberamente abbracciare il proprio bambino/a, il proprio partner.
Naturalmente alcune delle domande più comuni espresse dai genitori di un bambino sordo riguardano la possibilità per il figlio/a di poter mai ascoltare e comunicare. Anche nei casi di diagnosi efficaci già alla nascita, e di tempestivo impianto cocleare, il bambino può trovarsi in un'età in cui semplicemente non può "propriamente" comunicare per rassicurare i propri genitori.
In questi casi suggerisco agli uomini, come alle donne, di concentrarsi sulla dimensione corporea, di imparare a “sentire” il proprio corpo, e attraverso il corpo, individuando nuove modalità comunicative per stabilire un contatto diretto con il proprio bambino/a sordo. Questa è un'altra cosa che ripeto spesso nel mio lavoro: il corpo è uno scrigno meraviglioso e prezioso, e spesso la nostra cultura ce lo fa scordare. Occorre solamente re-imparare ad ascoltarlo. E questo vale anche, e soprattutto, quando si parla di sordità.
Per visualizzare la semplicità e l'impatto emotivo del corpo che parla-e-sente, proviamo a pensare al momento che precede la nanna.
Tradizionalmente, è il momento in cui i genitori instaurano una ritualità di saluto, consolatoria e dolce, attraverso la lettura o il racconto di storie, o con il canto di litanie e ninne-nanne. Questo momento si può tranquillamente costruire anche con un bimbo/a sordo.
Quando il padre legge una fiaba o canta una ninna nanna, può appoggiare il proprio bambino/a sul petto, stabilendo un contatto corporeo diretto, pelle su pelle. Stabilito questo contatto corporeo, i genitori possono iniziare a raccontare con delicatezza una storia, a cantare una ninna-nanna. I bambini piccoli, che già utilizzano il tatto e la pelle come modalità prevalente di interazione con il mondo, è naturale appoggiare il capo, il petto, le mani sul petto del padre. Naturalmente il bambino/a si abbandonerà alla percezione delle vibrazioni, da cui si farà coccolare.
Questo semplice esercizio rappresenta la base logica di qualsiasi processo comunicativo: trasmettere qualcosa in un modo o in un altro, da una persona ad un'altra. Quando i padri sperimentano questo modo di comunicare con il proprio bambino/a, tendono a scoprire come le emozioni siano preziose, come possano accettarle con semplicità e farne tesoro. Si scoprono "sbloccati", e possono liberamente abbracciare il proprio bambino/a, il proprio partner.
È fantastico. È così importante scoprire che una comunicazione, una connessione è possibile sempre, in qualsiasi modo. C'è qualcosa che vorresti condividere e aggiungere?
Penso sia importante ricordare sempre l'importanza di dare dignità alle nostre emozioni, per quanto difficile possa essere. Quando il dolore, la sofferenza e l'angoscia entrano prepotentemente nella vita di una famiglia, è importante che ci si radichi: così come le radici permettono agli alberi di resistere e fronteggiare la tempesta, così il radicamento esistenziale della persona, la consapevolezza profonda aiutano a fronteggiare le tempeste emotive. La possibilità di radicarsi, di tenere nonostante tutto, accettando le proprie radici e facendosi attraversare dal flusso della vita apre ad un senso di possibilità che consente agli adulti feriti di diventare genitori efficaci.
Accettare che le cose accadono è sicuramente una sfida individuale e culturale, e rispetto alle differenze culturali che sono implicate probabilmente torneremo insieme a parlarne. Ma come in ogni confronto con la realtà, anche in situazioni difficili, gli individui possono sempre lavorare per trasformare il proprio dolore in sofferenza, iniziando un percorso che consenta di farsene comunque qualcosa, di non esserne giocati e messi in scacco. Ho visto come, sia nella mia esperienza personale che in tanti incontri con i genitori, a partire dal momento in cui inizia questo percorso, le cose possano cambiare, e possano condurre ad una ridefinizione di nuovi orizzonti di senso.
I genitori possono riscoprire cosa sia davvero importante per loro, cosa e dove si trovi un profondo significato della vita, e come questo non abbia nulla a che fare con una capacità o una disabilità, ma con l'apertura all'accettazione della unicità e dell'individualità, di come solo questa possa consentire di vivere una vita piena ed emozionante, nonostante tutto.
Diventa così possibile per il genitore ridefinire le priorità, concentrandosi su ciò che è importante essere, più che su ciò che è importante avere.
Vivere una vita piena è un diritto di ogni essere umano. Questo è importante per me come bipede, come padre, come marito, come psicologo. È prezioso per mia moglie, per la mia famiglia. Per mia figlia e per mio figlio. Per ogni singolo individuo.
Accettare la verità, e dire la verità, a mio parere è un modo piuttosto onesto di essere. L'accettazione della totalità di ciò che la vita offre è il modo migliore e più onesto che ho trovato per consentire ai miei figli di vivere tutte le possibilità che la vita potrà riservare loro.
Paolo, le tue parole sono semplicemente bellissime e stimolanti! Ti voglio ringraziare per aver condiviso le tue esperienze e portano una prospettiva così diversa del crescere un bambino/a sordo.»
Se
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un bambino/a sorda” - il testo è in inglese.
Vorrei
ringraziare Krystyann Krywko per la fiducia e la possibilità che mi
ha offerto di condividere alcuni pensieri sull'essere genitore e la
sordità.
Photo credit: Scott Akerman
"What a fascinating post. Thank you. I know nothing about the area of hearing loss but it looks like something well worth informing INDTC members about".
RispondiEliminaJohn Gale, Psychotherapist, CEO at Community Housing and Therapy (CHT), President INDTC. via linkedin (https://www.linkedin.com/grp/post/6513423-6053918103996235776?trk=groups-post-b-title )