i pensieri del dentro 18 - uno sguardo di generosità
La generosità di occuparsi della vita, dell’abitare il vivere. Occuparsi di sé, degli altri. Generosamente.
Antonio Ligabue, nella sua sana, meravigliosa follia soleva dire “fai per gli altri quello che ti fa stare bene, senza aspettarti che gli altri ti diano qualcosa in cambio.”
Non attendersi nulla, ma essere. Come principale occupazione dell’esistere. Un piccola quotidiana rivoluzione.
Anzi qualcosa di più e di meglio di una rivoluzione, che di per sé indica sempre un ritorno in un moto di rotazione che torna all’uguale in un tempo diverso.
Una piccola ribellione quotidiana, nel senso del ritorno a ciò che è bello, e ribolle di bellezza. Lontano dal “do ut des” di smaccata commerciale economia, il fare ciò che il proprio bene sembra indicare senza nulla chiedere in cambio rimanda ad un orizzonte quasi zen, in cui con generosità ci si può concedere di bastarsi, di essere abbastanza. Anche perché, viene da dire come una persona con cui lavorai qualche tempo fa, “cosa mai ci sarà di ‘abbastanza meglio’ del proprio bene?”.
Occuparsi di ciò che il proprio bene sembra indicare per quel che si può cogliere consente un ulteriore movimento di liberazione: occupati, possiamo smettere di preoccuparci, di vivere una posizione di Sisifo che trascina il suo masso di paranoia su e giù dalla collina del vivere.
L’incontro con l’altro accade comunque, e a prescindere. Perché dunque preoccuparci, occuparci cioè in anticipo rispetto al tempo dell’incontro, con l’affanno di modellarci per entrare in contesti e aspettative che appartengono all’altro dell’incontro?
Dopo aver incontrato in tanti modelli istituzionali (famiglia di origine, scuola e coppia innanzitutto) l’illusione del controllo e la menzogna della perfettibilità, possiamo permetterci l’onestà intellettuale di essere chi si è.
Permettersi la serietà e la disciplina di essere chi siamo, senza che il prendersi sul serio diventi ossessione, ma lasciando campo alla leggerezza e ad uno sguardo aperto su ciò che circonda, fuori da noi, come dentro di noi.
Dare un senso al dubbio, accogliendolo dentro o su di sé. Forse. Quel 'fors sit' latino che parla di sorte e destino, che si scelgono con scelte che possono fare o disfare, dove il disfare non è atto di negare o di negarsi, ma un permettersi.
Permettersi la generosità di permanere nel rapporto con la propria solitudine. Letteralmente, con un’insieme che sa stare da sé. Quel ‘Solus, -a, -um' che occupa l’unica posizione a cui si possa appartenere davvero, e che consente un esistere rispetto a quell’ ‘Alius, -a, -ud’ che è lo stare tra più di due, e quell’ 'Alter, -a, -um’ che è invece l’altro da ciò che si è.
Solitudine come movimento di scoprirsi, e riscoprirsi. Disvelati e rivelati. Spogliati dalle proiezioni dell’altro a cui si pensa di appartenere.
Spogliarsi, guardarsi nudi allo specchio. Esercizio quasi quotidiano, per alcuni, dopo la doccia, prima di vestirsi. Esercizio spesso disattento, in cui ci si guarda senza mai vedersi, presi e persi in quei particolari insignificanti che sono i nostri intimi significanti corporei. Solitamente quelli che non garbano, o garbano di meno.
Guardarsi allo specchio, spogliati di maschere e vestiti, vedersi attraverso la nudità, vedersi per quello che si è, abbracciandosi con lo sguardo. Non come esercizio di Narciso, ma come sguardo di Orfeo capace di comprendere l’apollineo e il dionisiaco, di cogliere l’intimo erotismo della decadenza e della rigenerazione.
Quasi un bastarsi essendo già oltre.
Cogliendo il limite come un orizzonte che si osserva e si abita e si percorre senza mai darsi raggiunto. Nel continuo procedere, si rinnova a ogni passo, ad ogni sguardo.
Abitare il momento, prendersi un momento per non smarrirsi nel momento. Quasi un incontro perfetto tra l’etimo latino che lo definisce come una piccola causa di movimento, e, insieme, una piccola cosa in genere, con l’indeterminazione quantistica che dice dell’impossibilità di determinare contemporaneamente posizione e quantità di moto.
Abitare un momento, uno sguardo. Svuotandolo da tutti i vestiti che si indossano nell’incontro davanti all’altro. Scoprire e permettersi uno spazio vuoto, uno spazio “fatto di niente, un niente comunque prezioso”, come mi disse una giovane donna con cui lavoravo.
Uno spazio insaturo, senza il tutto-pieno del consumismo per il consumo che consuma l’esistente nel discorso del capitalista.
Uno spazio vuoto è uno spazio dove incontrare la mancanza, la noia, l’attesa.
Dove il non-tutto-pieno è uno spazio per un niente che è soprattutto qualcosa: è leggerezza.
Concedersi questo spazio, dentro e fuori e intorno a sé. Tra il corpo e la percezione del corpo. Con curiosità.Con generosità. La generosità di permettersi di incontrare un sé che si dà senza curarsi di ciò che lo sguardo dell’altro prende. Uno sguardo che sfiora senza toccare, che vive la profondità senza affondare, la superficie senza galleggiare, che emerge senza immersione.
Senza veli, disvelati e rivelati, con la generosità di uno sguardo che permetta il vedersi.
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con un pensiero di gratitudine per Mehran e Negar per la generosità dei sorrisi
scritto ai tavolini del loro STconceptstore di via Barbaroux 16
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