i pensieri del dentro 16 - o del liberarsi dalla narrazione che ci precede per incontrare ciò che si è

La grammatica dell’esistenza è un processo, una dinamica in divenire che parla costantemente al futuro anteriore, quel tempo così particolare che segna l’uscita del presente dall’ingombro del passato.
Un tempo che consente al soggetto di abitare l’unico tempo che si possa abitare davvero senza mai poterlo afferrare.
Per certi versi, è un tempo che incarna la metafora di un’eredità simbolica. La dimensione simbolica dell’eredità (materna, paterna, linguistica) è dimensione metaforica del trascorrere generativo del tempo. 
Riprende e da forma concreta al concetto coniato da Erickson di “generatività”, uno slancio per favorire il passaggio del sapere, così implicitamente e biologicamente necessario, dalla dimensione storica del passato, in un processo di liberazione dal vincolo narcisista ed economico della proprietà per trasferirlo alla libera possibilità di divenire ed essere altro da ciò che era stato.
La dimensione generativa del tempo e il modo di abitarlo si nutre di questo passaggio, si nutre della gratuità del mistero. 
Da ciò che fu (appreso, vissuto, sperimentato) a ciò che potrà essere senza alcuna prelazione nella forma che si andrà a costituire.
Questo passaggio ha un costo, che solo apparentemente suona banale: l'incontro con la verità. 
La dimensione storica ed esistenziale della verità non ha nulla a che vedere con la perpetrata definizione assolutistica della teologia, della religione o della filosofia. A differenza di questi ambiti che definiscono la verità in termini escludenti e dittatoriali riconducibili al classico “…o…o…”, la verità esistenziale è incarnata nella vita, nella sofferenza del vivere.
E’ la verità spuria, mai definitiva, che si origina dall'eredità del passato e si iscrive nel mistero del divenire. La sola che permetta al soggetto di essere ciò che è, restituendo la dignità del potere esistenziale di essere, di esplorare e di scoprire ciò che non si sa di sapere di essere.
Nella lavoro di cura spesso accade di vivere questo passaggio, che è verbalizzato nel suo tradurre un’iniziale “… sono sempre stata/o così…”, verso un permettersi di incontrare la propria lingua, il proprio discorso, i propri significanti, evidenziando come l'esistenza dell'altro permanga da sempre nel campo dell’essere e di uno stare anche senza averlo mai incontrato prima.
Questo è un passaggio chiave del processo di soggettivazione:
segna l’uscita da ciò che si è sempre illusoriamente pensato di sapere di sé per entrare nel mistero di ciò che si sarà nella misura di ciò che si sarà stati.
Il soggetto non è mai completamente completo, non è mai un “io”, l’io è sempre un altro. Nel 1994, infiammando la platea dell’ “uno contro tutti”, Carmelo Bene lo disse assai bene “è inutile, io non esisto. Perché fare domande?”. 
Esistono narrazioni, rappresentazioni, giudizi e pregiudizi. Tutti veri. Tutti parziali. Ogni nascita è preceduta da una scelta, un desiderio, un pensiero, una narrazione familiare, o anti-familiare, a seconda dei casi. 
Capita di incontrare sofferenza quando una persona, anziché ascoltare il proprio desiderio, ascolta quello altrui, quello familiare e/o sociale, e vi ci si adatta.
Soggettivarsi implica questo passaggio, in cui possiamo scoprire di essere altro dalla narrazione che ci precede, di essere un altro da quanto si sia potuto immaginare. 
Significa incontrare e incarnare il fallimento delle definizioni che ci precedono. 
E’ scoperta dell’apertura all’essere anche potenzialmente atto mancato. Il solo riuscito davvero, come scriveva Lacan. 
E’ apertura generativa senza prescrizione di risultato. 
E’ passaggio dalla definizione illusoria e assoluta della verità familiare e sociale, di ciò che si è stati detti di essere al “divenire ciò che si è”. Come scriveva Nietzsche nello Zarathustra “molti muoiono troppo tardi, alcuni troppo presto. Ancora insolita suona questa dottrina: muori al momento giusto… diventa ciò che sei, trova un destino che tu possa amare”.
E’ un processo generativo, occorre ripeterlo nell’accezione di Erickson: 
un processo di liberazione dal vincolo narcisista ed economico della proprietà impressa dalla narrazione familiare e sociale in favore del poter essere, del potere dell’essere. 
Un processo che si nutre di curiosità, timori, apertura, respiro.
Un processo che consente di scoprire la propria interna ed intrinseca abbondanza. Un’abbondanza che ci si può donare, che può diventare un presente. Non perché tutti siano eccedenti, ma perché nessuno sia annullato. Perché l’universo è abbondante. 
Ce lo ricorda ancora Nietzsche quando asserisce, con un certo mal celato senso dell’imponderabilità, come “ogni individuo collabori all’intero essere cosmico, lo si sappia o no, lo si voglia o no.” 
Imparare a bastarsi e sentirsi abbondare. Ab-unda, letteralmente il traboccare dell’acqua che permette di navigare sull’onda della vita, che a volte travolge, altre è cavalcata. 
Un’onda su cui il galleggiare non preclude o evita le bevute, amare e salate, dolorose nel loro dare l’impressione dell’affogare.
Come disse una volta una giovane donna, “mi sono permessa di galleggiare sul mare … il mare è la vita. Il mio compagno mi diceva di appoggiarmi a lui, di fidarmi di lui, di quello che diceva. Ho scoperto che mi potevo fidare di lui, ma che non sapevo fidarmi di me… ci sono cose che posso fare solo da sola… così mi sono permessa di galleggiare, e ho visto il cielo da una prospettiva che non avevo mai visto prima”.

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