i pensieri del dentro 14 - poter assumere il desiderio

Sia nelle storie individuali che nei gruppi capita spesso di incontrare una narrazione della frustrazione come una dimensione ambientale, contestuale, immanente. 
Quasi una divinità dispettosa scesa sulla terra per contaminare i bipedi con un’epidemia di malessere, ansia, angoscia, sofferenza. 
Come spesso accade, quando una determinata posizione viene assunta come data a prescindere dal risultato finale, è sempre espressione di una verità che, a sua volta, è comunque funzionale a qualcosa. O qualcuno, come ci insegna la teoria sistemica. 
A chi può essere funzionale che i bipedi introiettino la frustrazione come un dato di fatto? 
Forse a chi conta sul mantenimento di una situazione in cui una parte sviluppa, e a volte annaspa e affonda, nella frustrazione. 
Se infatti la frustrazione fosse davvero una sorta di dimensione ambientale e di contesto, sarebbe un dato di realtà con cui al massimo potremmo interrogarci sul cosa farcene una volta accettata come tale. 
Solitamente il cosa farcene ha a che spartire con la somatizzazione, cioè con il tradurre nel corpo ciò che le parole non riescono a dire. 
Solitamente, crea un ambiente interno in cui l’accettazione della sofferenza viene sempre più introiettata come dato di realtà, rendendo difficoltoso per la persona sganciarsi dal limbo delle frustrazione per ripercorrere i sentieri della propria soggettivazione. 
Ciò che accade ai singoli bipedi e di cui beneficiano altri è la perdita della correlazione diretta tra la frustrazione e le aspettative, con cui la frustrazione è sostanzialmente in rapporto direttamente proporzionale. 
Nella matematica relazionale e sociale delle aspettative e della frustrazione, il meccanismo che si insinua discende da una eccessiva adesione ad un universo di aspettative che tendono ad essere indotte, a sostituirsi silenziosamente al potere desiderante della persona, che alla fine si trova svuotata della propria dimensione di desiderio. 
Letteralmente sopraffatta dall’imperativo performante dell’aspettativa, che è dato per non compiersi, il soggetto si ritrova involontariamente inscritto nella dimensione del dovere. 
Un dovere particolare, assoluto, che suona come un imperativo morale, un dovere nella forma del dovere per il dovere, con una grammatica che riecheggia il discorso del capitalista che inneggia al consumo per il consumo. 
Occorre sganciarsi dal debito del dovere, un debito implicito e per nulla simbolico, in cui il dovere è sempre rivolto all’aspettativa esterna (sociale, familiare, di coppia, istituzionale …), che viene progressivamente introiettata, vissuta e rivendicata come propria. Straordinario risultato del marketing dell’indottrinamento, in cui, assumendo come proprio ciò che è dell’altro, ci si condanna alla ripetizione e al non soddisfacimento. Essendo volere dell’altro, la soddisfazione starà in chi la desidera, non in chi si adopera per rispondere ad un simulacro di immagine di sé. 
Ogni qual colta in cui ci si avvicina a questo delicato passaggio, mi capita spesso di dichiarare alle persone con cui lavoro che è possibile passare attraverso un conflitto, il cui terreno è comunque simbolico, linguistico. 
Un conflitto di parole e di verbi. 
All’espressione “penso proprio di dovere a me stessa/o di stare bene” rispondo semplicemente con una parola. Potere. Posso. 
Assumere il proprio desiderio, il proprio bene, è un potere. 
Come ci ricorda la grammatica italiana, potere, prima di essere un sostantivo, è un verbo modale, ovvero la sua significazione discende da modo in cui viene declinato, ed utilizzato. 
Letteralmente, è facoltà, diritto a fare ed essere checchessia, è capacità. 
Il fatto che nel linguaggio comune il termine “potere" sia associato a significati altri (prepotenza, imposizione, supremazia …) forse illumina già una chiara dimensione di chi ne possa essere il beneficiario sostanziale. 
Per questo qualche piccolo conflitto può essere necessario, per tornare ad assumere sulla propria soggettività il potere di assumere il proprio bene e il proprio desiderio. 
A differenza della dimensione narcisista che esercita la dittatura dell’io a discapito del desiderio che vi soggiace, il desiderio più proprio si muove in una sorta di anarchia del potere in cui non si dà senza regole, ma inscrive da sé la possibilità delle regole e il potere e la responsabilità di riconoscerle prima che le impongano altri. 
Il desiderio può tornare ad essere significabile come un potere esistenziale, la cui natura, e destino, non è di compiersi realizzandosi. Questo sarebbe il terreno dell’imperativo della performance e della dittatura del dovere di realizzarsi.
Il destino e la natura del desiderio è di poter esistere, di essere desiderante. 
Compiere questa piccola trasformazione lessicale e linguistica apre alla possibilità della persona di tornare a soggettivare il proprio desiderio, il proprio poter essere.
In una dinamica attiva, in cui i mezzi e fini sono entrambi parti di un processo vitale che non ha obbiettivo di compiersi come successo, ma di essere abitato con consapevolezza. 
Un abitare un percorso esistenziale che restituisce la dignità dell’incompiuto, aprendo al fallimento e utilizzando la consapevolezza del processo per soggettivarsi, cioè per separare ciò che è proprio e ciò che è dell’altro, mantenendo aperta la finestra sul potere del desiderio, dell’essere desiderante, arricchendola della qualità dei limiti incontrati e riconosciuti come propri, preziosi compagni di viaggio. 
Ci aspettano oltre la finestra, insieme al mondo che attende. 
Come nella fotografia, possiamo mettere a fuoco i muri, i montanti della finestra, le sbarre che proteggono e costringono dividendo dentro e fuori, oppure la vetta della montagna che possiamo scalare. Il cielo blu e le nuvole che viaggiano libere sopra a ogni cosa. Possiamo vederlo. Possiamo volerlo. Possiamo.

(Rocciamelone, Margone, Malciaussia, Viareggio)

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