I pensieri del dentro 13 - esigere significanza, riscuoterne ciò che è potuto

Sempre più percepisco come movimento necessario il ritrovare una significanza originaria nel senso delle parole, quasi un'esigenza di tenuta di un piano simbolico di fronte al progressivo slittamento che porta ad una denominazione della realtà fuori da ogni contorno di reale, sempre più in balia di un accomodamento che conferma la narrazione “sul” reale, rispetto alla narrazione del reale e nel reale. 
Se la seconda narrazione apre ai significanti con la loro varianza di sfumature, la prima è la forma assoluta che ritroviamo nel delirio psicotico, in cui alla varietà simbolica dei significanti si sostituisce una mono-definizione dittatoriale, assoluta e assolutistica. E’ questione e segno dei tempi, si dirà. Già, il tempo che ritorna. 
Così come nel corso delle ere geologiche c'è stato un ribaltamento del polo magnetico terrestre, così accade che diverse stagioni storiche portino a un ribaltamento della significazione delle parole, e, di conseguenza, ad un ribaltamento del senso della vita e del vivere. 
Ci sono stagioni storiche in cui la significanza di una parola si caratterizza per una sua circolarità dall'etimo originario al significato che è dato a ritroso dalla punteggiatura della frase. 
Altre epoche storiche, solitamente ricordate come buie, caratterizzate da una linearità selettiva che prescinde l’etimo, la punteggiatura e il significato originale e proprio. Questa nuova linearità selettiva funziona da controllo sociale, giustificando e assolutizzando una lettura e una narrazione unilaterale della realtà imposta dalla sua stessa assolutezza. 
Capita sovente. Sempre più sovente, a veder bene. 
Ciò che accade di curioso, è che riprendere la significanza originale orienta il discorso in una direzione spesso assai divergente dal significato che si suole dare come dato. Quasi che la significanza originaria indichi una parolaccia, una bestemmia, un’eresia. 
Qualche tempo fa con una collega stavamo facilitando un incontro con un gruppo di volontari di una importante realtà lombarda. Durante il lavoro di gruppo, ho notato e ripreso l’utilizzo di una parola assai di moda nei tempi recenti, “resilienza”. 
Come spesso accade nei gruppi, abbiamo ripreso la parola, anticipando che avremmo detto delle parolacce, non tanto nel senso del turpiloquio, quanto della proposta di una riscoperta della profondità originaria del significato come possibile punto di osservazione e ri-significazione dell’esistente. 
Abbiamo insieme notato come il significato di resilienza si origini dalla fisica meccanica, specificamente dall’ingegneria meccanica, in cui il punto di resilienza è il punto massimo di torsione prima che si spezzi un materiale, solitamente metallico. La resilienza indica cioè il lavoro meccanico necessario per spezzare un materiale mediante un urto o una torsione, quindi mediante un trauma procurato. 
Curiosamente e con una certa bizzarria, è solo dopo l’inizio del millennio che l’uso del termine resilienza ha preso quell'accezione positiva, rigenerante e rassicurante che abita ora la bocca di molti. 
Come in un divertissement quasi dadaista, diventa interessante vedere come cambia il senso a seconda che si utilizzi una significazione piuttosto che un’altra. Essendo questo uno dei terreni sostanziali della psicoanalisi, abbiamo proposto al gruppo una sorta di gioco delle domande. 
Se invece che come un’insieme di capacità di far fronte mentalmente o emotivamente a una crisi o un trauma (individuale, sociale, economico) si intendesse il punto di rottura, come suonerebbe la frase “scommettiamo sulla resilienza di questa persona in difficoltà”? E ancora, come suonerebbe l’acronimo del tanto sbandierato “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”? 
Il sorriso della presidente dell’associazione dei volontari, una delle prime donne laureate in ingegneria meccanica nella storia italiana, era il sorriso di un ritrovarsi su un piano in cui diventa possibile aprire finestre di significati nascosti, originari, condivisi. 
Aprire finestre di possibile significazione non è solo una pratica clinica del prendersi cura, è forse anche una parte importante dell’etica della cura, dal momento che consente di costituirsi come altro simbolico, permettendo la possibilità della divergenza, e quindi della separazione, ovvero, del “se-parare”, dell’apparire a sé, del soggettivarsi. 
In questo processo, l’apertura è una parte sostanziale. 
Un’apertura di significati, di significanza, di significanti è un’apertura alla possibilità di soggettivazione, è altro rispetto alla rigidità dell’assolutismo del segno. 
La necessarietà della forma dell'esigenza nasce forse da qui, dall'incontrare in tanti pazienti e spesso nei gruppi uno smarrimento logico ed etico nella significanza e nella significabilità del senso del vivere e dell’operare all’interno di significati dati per assoluti. 
Sappiamo dalla clinica che una significazione assoluta e unidirezionale che copre e tappa la realtà è tipica del discorso delirante. Quello che segna, è proprio il caso di dirlo in questo modo, che segna nelle sue forme unidirezionali e affermative il discorso contemporaneo. 
A differenza del discorso delirante della follia classica che consentì a Foucault di dire che “il folle è l’altro in rapporto agli altri”, oggi l’iper-consumo gli oggetti e di beni sovrasta e annulla l’incontro con il proprio bene, con la propria declinazione unica e irripetibile di cosa possa essere il proprio bene. 
Questo, unito alla mono-definizione di senso e all’iper-connettività, sgancia, annullandola, la possibilità di fare legame e di ex-istere come altro del legame. 
Lo sganciare diventa letteralmente un liberare e uno staccare ciò che dell'individuo è tenuto dal piano simbolico. 
È uno staccare soggetto e oggetto dalla dialettica circolare e simbolica del legame, dal poter essere altro dell’altro. 
La iper-connettività elimina lo spazio insaturo della mancanza creando uno spazio di vuoto per il vuoto. La liberazione non è più liberazione dei corpi e delle menti, è liberazione dalla mancanza. Liberazione illusoria che consegna al vuoto dell’angoscia. 
La circolarità dialettica della soggettivazione e del legame viene sostituita con il circuito del vuoto e del consumo che si immagina annullarlo, in un movimento che produce unicamente un vuoto che risulta così proattivo per il consumo compulsivo, fine a se stesso. 
L’individuo si illude dell'essere padrone di sé attraverso il consumo per il consumo, attraverso cioè una coazione a ripetere che non da mai ragione alla soddisfazione e al godimento, ma che unicamente condanna ad una ripetizione obbligata del meccanismo di saturazione del vuoto con l’effimero, cioè con un non-nulla che si compie e si esaurisce in un niente. 
Mentre il non nulla sarebbe già qualcosa, l'effimero è un nonnulla che si esaurisce nel niente. 
Il soggetto si trova così a vagare in una esistenza che, svuotata del radicamento e della radicalità della dimensione simbolica, si adatta all'angoscia e alla difesa dall'angoscia come componente strutturale e strutturante, e la chiama resilienza. 
Si crea un meccanismo che sostituisce la circolarità dialettica del legame con le sue possibilità di conflitto con il corto circuito lineare che chiede e impone un adattamento per adesione in luogo di una significazione per differenza. 
Si impone una bidimensionalità che elimina ogni profondità prospettica, e di conseguenza ogni possibilità di creazione di nuove prospettive. 
Applicato su scala sociale e macro-sociale, produce uno slittamento della profondità simbolica del linguaggio nel discorso bidimensionale della violenza che prevede unicamente due posizioni assolute (bene-male, vittima-aggressore, pieno-vuoto, giusto-sbagliato, amico-nemico …). 
In una stagione storica di siffatta natura e struttura, l'esigenza di un piano simbolico che ex-ista è un'istanza di un prendersi cura che possa fare testimonianza del diritto e della dignità di esistere come altro, aprendo alla circolarità che fa legame confermando lecitamente il potere di poter “essere altro da …”, e quindi di divergere dall'imperativo del consumo per il consumo come soluzione unica di evitamento illusorio del binomio vuoto- angoscia. 
Potremmo dire e sentire questa come una responsabilità etica che sia insieme un'offerta sofferta, un dono cioè di semplice complessità, una via maestra per testimoniare l'andare e l'abitare della vita con tutte le sue sfumature, qualità e sapori. Tutti preziosi. 
Possiamo chiamare ogni cosa con il suo proprio nome, che è sempre, indissolubilmente, il nome proprio di quella singola cosa. Vale per le cose, vale per le persone. Il proprio nome è sempre nome proprio. Per questo occorre chiamarlo per ciò che è. 
Poi, come sono solito dire ai gruppi e alle persone con cui lavoro, se suona politicamente scorretto, possiamo non dispiacercene, con buona pace della resilienza e dell’assolutismo del politicamente corretto. Possiamo permetterci la verità, tutte le verità. Possiamo permetterci la divergenza. 

Commenti

Post più popolari