Pensieri del dentro (11) – la domanda, problema e soluzione
Penso che mettere in questione l’esistente sia un modo piuttosto onesto per autorizzarsi a mettersi a nudo davanti al reale della vita, del mondo, di ciò che accade.
Milano. Entrare nel grande padiglione della fiera è di per sé stordente. Scolaresche ed esposizioni a perdita d’occhio. Nonostante la moltitudine, l’occhio non si perde. Si permette la tranquillità dell’osservare. Poco dopo l’ingresso, vicino ad uno degli espositori, sono adagiati, non so se persi, buttati o distribuiti, alcune pagine di adesivi, brand e loghi naturali. Promette bene l’ingresso alla fiera. Coesione sociale e dell’ambiente. Nessuna licenza CreativeCommons.
Gli slogan che incontro sono due, e parlano discorsi interessanti nella loro stringata essenza. “Fa la cosa giusta”. Meraviglioso truismo. Una di quelle affermazioni speciali che solo banalmente suonano banali.
“Fa la cosa giusta”. Come se fosse possibile fare diversamente. Ognuno può fare, dire, essere sempre e solamente ciò che è giusto, dal momento che quel fare, dire, essere, non può che dispiegare le ragioni e le verità del soggetto che le compie, le afferma, le vive.
A meno di rifarsi ad una qualche forma di un’assoluto, ogni singola persona fa, dice, è letteralmente sempre la cosa giusta. Se no ne farebbe, direbbe, vivrebbe una differente. Ciò che è interessante vedere è se abbia la responsabilità di metterla in questione, di domandarla davanti al reale della vita. Se ci sia l’onestà di scoprirla errata, fallace, da rivedere. Il “Fa la cosa giusta” è un truismo auto-consolatorio, auto-compiacente. Un truismo adesivo, nel senso che si appiccica ma al contempo a cui si aderisce.
D’altronde, gli adesivi si appiccicano, sono stati inventati per questo.
Anche il secondo slogan si appiccica, è una domanda, una parola d’ordine che superficialmente domanda, ma che rimanda a diverse affermazione a seconda della sua declinazione, del suo inserirsi all’interno di un discorso. “Cosa (ci) manca ancora?”. Domanda retorica, di quella retorica che solitamente si apparecchia sulla tavola degli altri, mentre la nostra offre caviale. La parte implicita, nascosta, latente, che sottende a una frase come ad un discorso o a un sogno, è sempre la parte più interessante.
La domanda “Cosa (ci) manca ancora?”, cosa implica?
Mentre me lo chiedo, noto con una certa ilarità sommessa, come sia un domandarsi di una domanda, il che solitamente ne farebbe un’affermazione. Il primo, banale e immediato pensiero, è quale sia il problema in ciò che ancora manca. Non riesco a trovare una risposta, a meno di abitare con convinzione un discorso capitalista, in cui il godimento è dato dal punto di arrivo illusorio del colmare ciò che manca.
Come se fosse possibile e auspicabile colmare ciò che ancora manca.
Come se questo fosse il migliore biglietto di ingresso per la fiera della coesione sociale, del eco-consumo. Di un consumo cioè che fa eco alla strada del consumo che dovrebbe assicurare di colmare la mancanza.
Con questi pensieri mi aggiro tra gli stand, arrivo allo spazio dibattiti. Spazio di coesione.
Interessante etimo per nominare questo spazio. Un parola latina che parla dell’essere (uniti) come dell’avere (connessioni). Parla dell’essere coerenti traslandola nel suo correlato fisico. Evoca una forza della natura, che dipende nel suo funzionamento dallo stato in cui versa. Una forza di coesione intensa se lo stato è solido, minore se è liquido, quasi nulla se è aeriforme. Una forza che si crea tra le molecole, gli elementi costitutivi di una sostanza, tenendole vinte e opponendosi alle forze esterne che tendono a separarle. E’ forza di resistenza ad un cambiamento imposto dalla violenza esterna. Un “si parte e si torna insieme”, come si dice nelle nostre valli.
Si parlerà di cambiamento, nella fattispecie quello climatico, e dell’esserne contro. Mi pare che l’aria che circonda i presenti già regali spunti interessanti.
Visto che sono entrato mettendo in questione una domanda, perché non iniziare mettendo in questione il mantra del “contro il cambiamento climatico”.
Come scriveva Brecht, i posti dei giusti che hanno sempre ragione sono sempre occupati, quindi tocca sedersi sui rimanenti. Abitare la parte dello scarto e del torto. Niente di meglio. Interrogare cosa renda questa affermazione così scandalosamente assoluta da non consentire nessun pensiero critico che la metta in discussione. Chi mai affermerebbe compiaciuto e convinto di essere a favore? Come per il cancro e la povertà, anche per il clima il coro greco si alza a scandire l’esserne contrario.
L’eco del coro si amplifica, contagiando tutti con un discorso vagamente cattolico per cui il cancro dipende dalla sigaretta che fumi (colpa di chi fuma, non dall’inquinamento della iper-produzione senza limiti), la povertà dipende dai sussidi pubblici (colpa di chi chiede aiuto, non dalle condizioni di sfruttamento contrattuale), così i cambiamenti climatici sono colpa di chi compra una bottiglia di plastica o usa un’auto a carburante fossile, e non della dimensione sistemica che vi sta alle spalle e che lo determina.
Certo, si dirà, ognuno può fare la differenza. Ognuno è parte e può fare il cambiamento. Il problema è che se il motore è la colpevolizzazione di chi lo subisce, suona più come il dispiegarsi di una spettacolare operazione di marketing sociale volta a mantenere lo status quo, appoggiando il proprio mantra sull’accollare ai singoli una dimensione problema che è per sua natura collettiva.
Solitamente, nella storia antica come recente, accollare ai singoli una dimensione sistemica collettiva è il modo migliore per mantenerla. Una trappola grossolana, ma efficacissima.
Così efficace che la lingua ha un nome per chi è contrario ai cambiamenti, conservatore.
Il punto non è se i cambiamenti climatici esistano o meno, dal momento che esistono eccome: sono la diretta conseguenza di uno stile di vita occidentale, tendenzialmente bianco, che bizzarramente risponde alla stessa domanda che ci accoglie, “cosa (ci) manca ancora?”, offrendo una serie infinita e sempre più evanescente e liquida di risposte per illudere che la mancanza sia colmatile.
Lacan l’aveva chiamato il discorso del capitalista. Rimane lo stesso anche se cambia un poco colore, anche se diventa leggermente più rosso. Leggermente più verde.
Proviamo a immaginare se il discorso potesse cambiare.
Proviamo quantomeno ad immaginare, ad autorizzarci ad immaginare, che si possa tornare ad essere soggetti del cambiamento. Riappropriarsi dei significati veri della vita a partire da quelli delle parole.
Cambiamento. Una parola greca, “kambein”, che indica la curvatura, il girare intorno, un ritornare.
Torniamo all’origine. Stephen Hawking ce lo ricorda: dal big bang in avanti, l’unica costante è il cambiamento, nel suo espandersi e ritrarsi, nel suo essere in connessione con una coerenza interna. Finalmente la definizione di “coesione” fatta parola e materia.
Scostarsi dal discorso del capitalista (di qualsiasi colore sia, anche verde, è uguale) significa emanciparsi dall’essere oggetto di consumo e tornare ad essere soggetti del vivere. Implica essere soggetti del cambiamento, sempre e comunque. Nonostante. Essere soggetti del cambiamento del vivere implica mettere in questione la struttura, o meglio la sovra-struttura di sistema che determina l’esistente.
Invece che funzionare per negazione conservativa, si può mettere in questione lo status-quo, riprendendosi la responsabilità del presente. Per dirne una a caso, invece che mangiare avocado e quinoa che arrivano in aereo, nave e camion dal sud america, possiamo tornare ad occuparci della prossimità, ad abitarla.
Tornare ad abitare un proprio inesauribile e inesaudibile prendersi cura.
Tornare ad essere soggetti del cambiamento implica accogliere ciò che manca (ancora e speriamo sempre) come condizione di desiderio, di cui si può essere soggetti.
Questo semplice movimento di ritorno a sé, all’essere soggetto del cambiamento attraverso il proprio corpo e il proprio essere, è la condizione necessaria per tornare ad abitare una dimensione collettiva differente. Ci si emancipa dall’essere oggetti della colpa che rende la collettività nulla più che una massa querula.
Ci si emancipa per tornare a mettere in questione l’esistente, il reale che ci sta di fronte e ci abita, e che noi, a nostra volta, possiamo scegliere come abitare.
Per dire giusto due banalità come esempio, invece che dipingere di verde la mobilità privata senza collegarla allo sfruttamento delle miniere, ai conflitti per il loro controllo e alle migrazioni di disperazione e speranza che ne conseguono, possiamo immaginare un insieme di singoli che si muovono collettivamente. Si chiama trasporto pubblico. Non è complicato. Potrebbe esistere già.
Ma fare questo significa uscire dalla confort-zone bianca, occidentale, capitalista, vagamente euro-americo-centrica, e tornare ad occuparsi dell’umano, ad abitare il cambiamento invece che a negarne la necessarietà opponendovisi.
Il reale è li, visibile a tutti. Il re nudo anche. Cammina insieme a noi, a volte intorno, altre volte dentro di noi.
Portare nelle classi, anche e soprattutto negli istituti tecnici e nei corsi professionalizzanti questi pensieri è ciò che facciamo, che abbiamo fatto con il progetto ican (International Climate Action network) e che continueremo a fare con il progetto C4C (Citizens 4 Climate).
Non ho mai accolto bene quei discorsi e quelle cause così nobili da non poterle mettere in questione.
Per questo portiamo questo nostro discorso agli insegnanti, perché possano tornare ad accogliere la verità dei loro studenti, una verità di rabbia annegata nella liquidità annichilente del post-pandemia.
Per questo portiamo il nostro discorso a ragazze e ragazzi, perché non sedersi sulla sedia di chi ha ragione, consente di aprire brecce e dare voce a quella rabbia vitale che si può fare discorso e cambiamento.
Non un semplice cambio di colore, ma un cambiamento sistemico che consenta di tornare a pensare e pensarsi soggetti della propria vita. Per essere liberi di viverla, senza colpe da compensare, ma con tutta la legittimità, la dignità e la libertà che si può desiderare. Immaginabile. Reale.
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