pensieri del dentro (9) - Parole rovesciate: lo slittamento radicale, ovvero il discorso della vittima, della sopravvissuta, del sopra-vivente

Ci sono momenti particolari nella vita. Momenti in cui un battito di ciglia separa una cosa da un’altra. Caldo e freddo. Vuoto e pieno. Luce e buio. Bene e male. 
A volte il passaggio è graduale, e ad ogni istante il precedente non differisce dal seguente se non per un non-nulla, il che è comunque già qualcosa. Giorno e notte. Notte e giorno. Giovane e vecchio. 
Altre volte il salto è imperativo, violento, con un rovesciamento logico radicale, doloroso e monolitico. Un prima e un dopo, netti, assoluti. 
Uno slittamento e un rovesciamento radicale tra ciò che solitamente è bene, e cosa è male.
Un movimento strutturale che origina per tracimazione due nuove forme, Benemale e Malebene. 
Il primo implica un volere del bene che tracima nel portare del male. 
Il secondo implica un portare e un ricevere il male come se fosse un bene. 
Non più due categorie distinte, ma un tracimare che prende progressivamente la forma dello scivolamento delirante dell’una nell’altra, e viceversa.

Ho sperimentato in prima persona questo rovesciamento logico nell’incontro con chi porta storie di violenza. 
Nel lavoro individuale con chi ha subito violenza, come nelle formazioni e nelle supervisioni alle équipe impegnate nei centri antiviolenza e di contrasto della tratta, è spesso emersa la natura involontariamente dogmatica e ideologica dei professionisti, che si sintetizza a partire dall'accezione del linguaggio che comunemente viene utilizzato per definire la persona che è sopravvissuta alla violenza come ‘vittima’.
Dogma e ideologia sono parti di una narrazione che determina una prospettiva di linguaggio involontariamente assertiva, che a sua volta implica un definire una persona bloccandola nell'assoluto di ciò che ha subito, identificandola in tale posizione di oggetto. L’oggetto-vittima. 
Una vittima è per sempre. Come un diamante.
Possiamo intravvedere però anche altro, e partire da una nuova significazione dell’essere della vittima.
Tom Robbins è uno scrittore che ho amato molto da ragazzo, e che ogni tanto ricompare. C’è un passo che torna, quasi che fosse incarnato dietro i miei occhi ogni qual volta incontri il tema della violenza e dell’essere della vittima, di qualunque genere e qualunque origine geografica sia.
È una narrazione che interroga sul senso dell’essere vittima di una violenza altrui, sul significato identitario dell’essere della vittima in quanto oggetto di una legge altrui che si suole considerare imposta. 
Tom Robbins costruisce una posizione differente, a partire dall’ “essere del fuorilegge”, dal sottrarre cioè l’ “essere della vittima” dall’imperativo singolare altrui che rende oggetti di una legge di violenza e di abusi, che è legge dell’altro. La violazione della legge non è solo la violazione della Legge formale, che in forme diverse vieta la violenza sull’essere umano, è la violazione della Legge interna che spogliando il soggetto dal proprio bene, ne fa un oggetto soggetto al benemale dell’altro.
"Vittima? … il primo passo … è il rifiuto d'essere vittimizzato. Tutti coloro che vivono soggetti alle leggi altrui sono vittime. Tutti coloro che infrangono la legge per ingordigia, frustrazione, o vendetta sono vittime. Tutti coloro che sovvertono le leggi per rimpiazzarle con le proprie sono vittime. Noialtri fuorilegge, invece, viviamo oltre la legge. Non meramente oltre la lettera della legge. Molti uomini d'affari, gran parte dei politici, e tutti gli sbirri lo fanno. Noi viviamo oltre lo spirito della legge … Quando la violenza trasforma intere popolazioni in sonnambuli, i fuorilegge non si alleano alle sveglie. Come i poeti, i fuorilegge riordinano l'incubo … Esistono mappe dei fuorilegge che conducono a tesori fuorilegge, e le amo in modo particolare. Niente affatto disposti ad aspettare che l'umanità migliori, i fuorilegge vivono come se quel giorno fosse già qui, e sopra ogni cosa è questo che mi piace … I fuorilegge sono apriscatole nel supermercato della vita." [1]
Riscoprire il diritto ad una identità individuale fuori dalla violenza dell’imperativo singolare altrui che rende oggetti significa che all’immagine di assolutezza dell’essere della vittima possiamo affiancarne un’altra che si pone come “fuori-dalla-legge” della violenza oggettivante dell’altro, aprendo alla dimensione dell’ “essere del sopravvissuto”. 
Di fronte alla violenza agita dall’esterno sulla legge interna del soggetto, l’essere fuorilegge permette di scostarsi, introducendo uno spazio fisico e simbolico in cui l’essere del sopravvissuto possa aprire una finestra, permettendo un’uscita dal dogma assolutista dell’essere vittima, in favore di un essere dei sopravvissuti, che situa il trauma in un orizzonte temporale passato e definito, e che può essere a sua volta proattivo per un’apertura a ciò che potrà essere e che si sostanzia nell’essere dei sopravviventi.
Nella grammatica del linguaggio, si assiste ad un passaggio logico e simbolico sostanziale, che può diventare fondante una nuova dimensione identitaria:
  • dall’essere vittima, in cui vittima è un predicato nominale
  • all’essere dei sopravvissuti, in cui sopravvissuti è un participio passato
  • all’essere dei sopravviventi, in cui sopravviventi è un participio presente, aperto al divenire di ciò che sarà stato.
L’immagine del sopravvissuto e del sopravvivente funziona come un potente archetipo di rinascita, perché implica uno spazio possibile, non ancora conoscibile, in cui riscoprire il potere di autorizzarsi a divenire oltre la dimensione del trauma, riscrivendo una nuova possibile trama oltre il trauma.
C’è qualcosa di saputo e di familiare in questo passaggio. Provo a raccontarlo nel modo più semplice che mi è possibile. Molte persone possono ricordare i primi tentativi di imparare ad andare in bicicletta. Si cadeva, ci si sbucciava le ginocchia, ci si faceva male. Molti potrebbero ricordare il pensiero “non salirò mai più su quel dannato arnese”. 
Questo ricordo, che potrebbe declinarsi come narrazione di essere vittime di incidenti stradali, domestici, lavorativi, sportivi o quant’altro, rende immediatamente visibile sia il passaggio necessario da vittima a sopravvissuti e sopravviventi, sia cosa sarebbe accaduto se ci fossimo fermati ad una narrazione di noi stessi in quanto vittime. Non saremmo più saliti su una bicicletta, una moto o un qualsiasi mezzo di trasporto, non avremmo mai più fatto uno sport, un lavoro. Non come scelta consapevole, ma come una narrazione segnata indelebilmente dal ritorno del trauma.
Si può però sperimentare che le sbucciature si puliscano, le ferite si chiudano, lasciando il terreno corporeo scolpito da cicatrici che ricordano la caduta, e il trauma della caduta. Alcuni potrebbero ricordare la sensazione di essere caduti, essersi presi cura delle ferite, del racconto fatto di essere stati vittime di un incidente in bicicletta, e di esserne sopravvissuti. Di essere andati oltre, continuando la vita in quanto sopravviventi, in quanto viventi sopra e nonostante le cicatrici. Le cicatrici che ci segnano, ci segnano sempre. Siamo, in fondo, null’altro che le cicatrici dei nostri lutti, delle rotture, dei traumi, le cicatrici della nostra vita.
Lo stesso movimento si ritrova nel lavoro con le vittime di violenza e con i professionisti impegnati nei centri antiviolenza e di contrasto della tratta.
Torniamo un momento indietro al definire, al significare la persona come “vittima”.
In un mondo assuefatto alla violenza, il linguaggio comunemente utilizzato nasconde e propone il rischio di slittare su un utilizzo del termine che definisce la persona per cosa subisce. 
La “vittima” si definisce unicamente in quanto chi subisce. Non per o a cosa sia sopravvissuta, né per il fatto di essere sopravvissuta.
Nella grammatica del linguaggio comune, la vittima si declina sempre come un oggetto, implica la domanda “vittima di chi? … di cosa”, in cui è il ‘chi’ e il ‘cosa’ il soggetto primo a cui la vittima appartiene, e alla vittima non rimane spazio altro se non essere confermata come la persona oggetto che subisce. 
Pensare di costruire percorsi di soggettivazione utilizzando un linguaggio che oggettifica le persone rende a mio avviso ancora più complicato il lavoro di cura. Meglio sarebbe iniziare a cambiare registro, iniziando a vedere l’essere del sopravvissuto e del sopravvivente, e non solo l’essere della vittima.
Nel mio lavoro sono abituato a significare ogni incontro come incontro con una persona portatrice di soggettività, di un sapere di sé che ho spesso trovato fortemente legato ad un processo di slittamento profondo, a volte quasi un cortocircuito ontologico nel processo di soggettivazione, tra bene-e-male e tra dentro-e-fuori. 
Ci sono parole che si ritrovano in molte storie di violenza. “Mi ha fatto male ma mi diceva che mi voleva bene” sono le parole che annientano il soggetto, che riceve il male e che, per sopravvivergli, lo chiama bene. Se il male che ricevo è bene, allora il bene è male. E il mio male è il mio bene.
Ecco l’inversione radicale.
Più questi movimenti accadono in giovane età, più si ripetono, più sono violenti e laceranti, maggiore è la loro presa, fino a rovesciare la modalità di lettura del mondo, sino al rovesciamento radicale.
Qui ci si costruisce a partire da un malebene (il-male-che-è-bene), come preferisco chiamarlo, in relazione diretta e opposta con un benemale (il-bene-che-è-male).
Questo slittamento ha qualcosa di più e di diverso dal discorso sadico o masochista, e anche del discorso perverso, dal momento che diviene uno slittamento costitutivo in cui la percezione di sé è quella unica del malebene rispetto ad un altrove che rimane confinato al benemale.
È lo slittamento tra essere oggetto dell'altro ed essere soggetto di sé.
È questo slittamento, questa inversione di senso ad essere estremamente delicato da accogliere.
Estremamente difficile e delicato da invertire.
Per dare un'idea immediata di questa fatica a cambiare la trama del trauma, porto spesso in seduta e nei gruppi un’immagine semplice e a molti familiare, quella della centrifuga che si utilizza in cucina per asciugare l'insalata. 
Dopo aver lavato l'insalata, solitamente la si depone dentro una centrifuga manuale, e si gira la manovella per asciugare l'insalata facendola ruotare al suo interno. Se il senso rimane unico, probabilmente rimarranno delle gocce d’acqua nelle pieghe dell’insalata, facendola marcire.
Per evitare questo, possiamo invertire il senso di rotazione. Prima orario, poi antiorario, o viceversa.
Se si prova a invertire il senso di rotazione, ci si accorgerà che la sensazione vissuta è di faticare molto di più rispetto al semplice peso di un centinaio di grammi di insalata. 
Questa fatica aggiuntiva, nella fisica ha un nome. Forza centrifuga. 
La peculiarità è che la fisica ci insegna come la forza centrifuga sia solo una espressione vettoriale utilizzata per semplificare i calcoli, e non sia una forza reale ma unicamente una forza apparente, che interviene in realtà come forza centripeta. 
Senza scendere nei particolari, la fisica ci dice semplicemente che invertire l'inerzia di un movimento è una funzione dell'inerzia più che non unicamente del peso specifico dell'oggetto del moto. 
Questa semplice immagine della fisica ci dice qualcosa di molte domande di cambiamento rispetto ad un tempo “prima” vissuto e spesso ripetuto con dolorosa e drammatica inerzia.
Come sappiamo, una domanda di cambiamento origina quando nel mondo interno si crea un disequilibrio rispetto a ciò che in precedenza era sufficientemente equilibrato, o quanto meno la sua narrazione riusciva a considerarlo tale e a contenerlo.
In questo senso, la resistenza al cambiamento può essere percepita come una sensazione pervasiva, a volte nella forma della certezza che si suppone assoluta e assertiva. 
Lo sperimentare una domanda di cambiamento presuppone un sapere che, sebbene sia necessario operare per il bene uno sforzo 'controcorrente' rispetto al conosciuto e al passato, questo sforzo appaia sproporzionato al peso del contenuto che si vuole modificare. La sensazione di “non so se ce la potrò fare” opera come una consapevolezza della fatica oltre che come attestazione di una resistenza.
Proprio come per l'insalata, infatti, lo sforzo è proporzionato al movimento che è stato impresso prima, ma opera in direzione opposta.
È possibile non inferire il peso di un contenuto (sia esso semplice insalata o un contenuto psichico) dallo sforzo che si fa per attuare un cambiamento di direzione. È possibile non attribuire carattere duraturo a una fatica che avrà durata e proporzione nel tempo necessario a esaurire il momentum [2] impresso precedentemente.
Il delicato e difficoltoso movimento di cambiamento implica un riequilibrare semantico e logico, che avviene necessariamente su piani differenti, tra loro intersecati, in grado di modificare la potenza conservativa di un male conosciuto nella prospettiva di un bene sconosciuto. 
Proprio come ci racconta la fisica nel caso dell’insalata, la resistenza non è una forza in sé, ma unicamente la misura dell’inerzia precedentemente impressa dalla o dalle situazioni traumatiche e/o di violenza.
Se l’inerzia impressa è stata particolarmente poderosa, e la violenza estremamente drammatica, l’inerzia di moto tenderà a muoversi nella direzione della ripetizione del circuito, chiamando in causa via via difese sempre più strutturate.
Se nel caso dell’insalata la tendenza sarà di ripetere il gesto nella stessa direzione, così la vittima si muoverà nello stesso circuito del già noto, già direzionato, già conosciuto.
È l'immagine di Charlie Brown che, all'uscita da scuola, attende inutilmente la ragazzina con i capelli rossi, con la consapevolezza che lei lo umilierà non rivolgendogli mai parola né sguardo, e con la spinta a verificare se anche il giorno successivo accadrà di nuovo.
Solo quando ci potrà essere una pausa, un inciampo che consenta il cambio di direzione e di prospettiva, allora sarà possibile che si apra uno spazio insaturo dalla ripetizione dell’uguale, della violenza.
Il mondo esterno ed il mondo interno potranno essere allora separati, per permettere la rivelazione del soggetto, che potrà essere nella condizione di recuperare un sapere del proprio bene e della propria legge. Un sapere che nella maggior parte dei casi, è sepolto dall’inerzia dell’essere vittima con le proprie, conosciute, difese.
Nelle situazioni in cui si subiscono profonde esperienze di violenza, si attivano svariate difese, che possono portare ad una radicale inversione della dialettica dentro-fuori, soggetto-oggetto, bene-male.
Si instaura una dialettica fortemente conservativa in cui alla conservazione della situazione di violenza, che comporta di per sé un male, si associa in maniera inconsapevole il supposto beneficio del sapere esattamente cosa accadrà. Come accade spesso di sentire, sono storie in cui la ripetizione dell'atto violento si accompagna ad una narrazione invertita, in cui “ti accade questa violenza perché ti voglio bene...”
Ciò che spesso accade è un progressivo rovesciamento in cui anche chi subisce la violenza non può che farsene una ragione nei termini invertiti del bene, per cui si “crede” realmente che il persecutore in realtà ami, rendendo difficile il distacco o la denuncia.
Il rovesciamento “mi fa male ma mi vuole bene” tende a polarizzarsi in una dimensione esistenziale in cui la percezione di essere soggetti del proprio destino è fittizia, e si ascolta nelle tipiche espressioni dell'illusorietà del potersene andare quando si vuole, che richiamano il “posso smettere quando voglio” della dipendenza.
A sua volta, è proprio questa natura fittizia a muovere atti e agiti che prevedono, precedendola, la violenza, con l'effetto di costruirne a posteriori una qualche delirante giustificazione, come nell'espressione «...ce la si è cercata...».
Il circuito è noto: tensione, supposta provocazione, risposta violenza, che sarà poi subita in una ripetizione perversa dell'atto violento dell'altro che certifica la persona che subisce come l'oggetto della violenza e del male dell'altro, proprio in virtù dell'inversione logica male-bene, io-altro. Questa certificazione come oggetto della violenza dell'altro genera un movimento psicotizzante, che porta la persona ad esistere non già come soggetto ma come oggetto.
Questo è uno dei punti particolarmente delicati rispetto alla dimensione ideologica astratta. 
La ripetizione della supposta provocazione non ha nulla a che spartire con una giustificazione dell’atto violento, ma ci dice unicamente la dimensione enorme dell’annichilimento esistenziale della persona che ha subito la violenza, in cui l’unico modo per esorcizzarla non è ancora quello del cambiare posizione, che prevede una presa minima di soggettività, ma quello del poterla almeno prevedere, in modo che non sia inaspettata, oltre che devastante e drammatica.
Capita a volte di notare come nella narrazione della vittima questo movimento rimandi ad una dialettica per così dire pseudo-amorosa: si presuppone che essere desiderati sia solitamente un'esperienza gratificante, ma il rimanere nella posizione dell'oggetto del desiderio di un'altra persona può allontanare, annullare, e infine forcludere, la possibilità di essere anche soggetti di desiderio.
Il rovesciamento bene-male è logico, semantico e significante, e si instaura in questa perdita di presa del soggetto che si accascia sull'essere unicamente oggetto dell'altro.
Ritroviamo così da un lato la difficoltà ad uscire dalla ripetizione del male subito, che è percepito sul piano concreto, dall’altro l’impossibilità di essere significato nel mondo interno dal momento che il soggetto che lo dovrebbe fare (ovvero la persona che subisce violenza), non esiste come soggetto di sé ma come oggetto delle attenzioni e dei desideri violenti e perversi dell'altro, strutturando un vero e proprio meccanismo di follia a due e di dipendenza dal rovesciamento bene-male nel processo di soggettivazione.
Un giorno, una persona con cui lavoravo già da parecchi mesi come supporto al superamento di maltrattamenti e abusi ricevuti nella famiglia d'origine prima e dal marito poi, mi portò un'immagine eccezionale. Avevamo lavorato per parecchi mesi sulla possibilità di abitare uno spazio insaturo, destituito dall'illusione di controllo e di certezza su cosa sarebbe potuto accadere, e sull'impossibilità di predestinare ciò che le sarebbe accaduto. 
Questa persona, che era di una puntualità assoluta, un giorno arrivò in ritardo di 15 minuti. Non le dissi nulla né in quell'occasione, né negli incontri immediatamente successivi. 
Dopo circa un mese e mezzo, mi chiese con una sottile nota a metà tra lo scherno e il rimprovero, se non avessi notato qualcosa di importante. 
Ho atteso che fosse lei a svelarmi la sua scoperta, cosa che puntualmente accadde. 
Mi riferì che “forse” non avevo notato il suo ritardo del mese precedente. 
Le dissi che l'avevo notato, ma non potendone sapere le motivazioni, avevo trattenuto la curiosità, attendendo che fosse lei a parlarmene, e che ero pronto per ascoltarla. 
Mi disse che era arrivata puntuale come al solito, il che significava essere parecchio in anticipo. 
Così si era seduta ad un tavolo esterno di un bar per bere un caffè e fumare una sigaretta. L'ordinazione le era arrivata con un certo ritardo, perché il cameriere si era attardato a chiacchierare dei fatti suoi con un'altra cliente, togliendole il tempo che si era voluta dedicare. 
Innervosita, spense la sigaretta e fece per alzarsi, quando le venne in mente che avevamo a lungo parlato intorno alla curiosità per quello che avrebbe potuto essere il suo bene, e che, essendo sempre una dimensione in-potenza, aveva la specificità di non potersi perfettamente definire a priori, ma di necessitare invece di uno spazio di inconoscibilità, che poteva certo essere angoscioso, ma poteva aprire alla curiosità, alla scoperta e al divenire.
Mi disse che decise che quello sarebbe stato il momento di verificare se i discorsi che ci avevano accompagnato per lunghi mesi fossero veri. 
Si risedette, accese e fumò la sigaretta, e bevve il caffè. 
Chiuse il racconto con queste testuali parole, che non scorderò mai:
«...lei non ha idea... non avevo mai gustato un caffè così buono e non ho mai goduto così tanto nel fumare una sigaretta come con quel caffè e con quella sigaretta...ora so che il discorso sul bene funziona, e so anche come funziona...».
Le dissi che erano parole meravigliose, una vera epifania, le chiesi di potermele prestare, e il permesso di poterle a mia volta ripetere ad altre persone.
Così come ogni persona ha il proprio, o i propri, punti di rottura, così ogni persona ha i propri particolari, unici e irripetibili momenti di ricongiunzione con la propria verità nascosta.
Ci vollero ancora parecchi incontri prima che il nostro lavoro terminasse, ma quel momento rappresentò un importante snodo, a cui fu sufficiente un caffè e una sigaretta per manifestarsi e permettere la narrazione del passaggio dall'essere oggetto dell'altro esterno, all'essere soggetto della propria affermazione, ad abbracciare la possibilità di essere soggetto destituito alle certezze del mondo. Non più vittima, non solo sopravvissuta, ma vivente.

......

[1] T. Robbins, Natura morta con picchio (Still Life with Woodpecker), 1980 Mondadori
[2] La fisica insegna che la quantità di moto di un oggetto è una grandezza vettoriale data dal prodotto della sua massa per la sua velocità. Il momentum rappresenta una grandezza conservativa, che permane uguale nel tempo in assenza di forze esterne al sistema che gravano sull'oggetto.

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