I pensieri del dentro - 8 - cura delle parole e parole della cura.

Ci sono pensieri che mi piace ripetere. Mi piace chiederli di nuovo, e di nuovi. 
Ri-petere, quasi un tornare e un riandare su ciò che è.
Pensieri e immagini, evanescenze, parole fondative, suggestioni e disvelamenti.
La magia delle parole è capace di giocare un girotondo di concretezza, di immaginazione, di magia, di significati palesi e nascosti, individuali e individuativi.
Una parola portatrice di magia è “cura”. Parola antica, dal latino Cura(m), dal significato profondo: pensiero, sollecitudine, ma anche ansia e mancanza di respiro. 
L'intero discorso della cura è condensato nella sua etimologia, che rimanda silenziosamente all’altro della relazione parlando di ciò che ci riguarda.
Come ci dice Irvin Yalom [1], una reale relazione di cura è, o quanto meno dovrebbe essere, un’apertura alla generatività [2], una fase post-narcisista in cui l'attenzione si sposta dall'espansione del sé verso la cura e il mistero inconoscibile dell’incontro con il mondo e con l’altro, lasciando andare nel mondo ciò che si è creato, rinunciando all’illusione di poterlo controllare e indirizzare. Come ci ricorda Hannah Arendt, le persone “anche se devono morire, non sono nate per morire, ma per incominciare” [3].
In questo senso condivido la mia personale definizione di cura:
il modo individuale di essere al mondo, di offrire la propria irripetibile vita umana ad altre vite, che incontriamo, che ci meticciano, che ci travolgono o lasciano indifferenti, che si rivelano a noi e che ci accompagnano a rivelarci a noi stessi.
La cura è un mestiere, con le sue regole, limiti, difficoltà, responsabilità e soddisfazioni.
La cura è un’arte. Una canzone, una poesia. È semplice bellezza, nonostante tutto. È un cielo, un albero. Un respiro. Il mare e l’acqua che scorre.
È una responsabilità etica, meravigliosamente e terribilmente umana. 
Una responsabilità e un’etica che si assume, o che si evita. 
Nonostante tanti ne parlino per farne salotto ed evitarla, la cura insiste nell’essere umano.
Nonostante tanti e nonostante tutto. Chi la evita ne può fare una narrazione da salotto. Dato che a ben vedere mi pare che le narrazioni da salotto tendano ad avere le gambe corte, meglio sarebbe assumere l’etica, ed esserne assunti.
La cura può essere svolta da persone con ruoli e ranghi molto diversi, in un continuo che va dai professionisti (terapeuti, psicologi, educatori, assistenti sociali, operatori, insegnanti...) ai genitori, dagli amici ai partner. 
A prescindere dalle diversità di mandato, di ruolo e dai differenti ranghi che la cultura vi ricama intorno, la cura è relazione, e come tale implica sempre un suo discorso. 
Come abbiamo studiato a scuola pochi o molti anni fa, un discorso si costruisce e si definisce sempre per la sua struttura grammaticale, che si compone di soggetto, verbo, oggetto, complementi. 
È la struttura del discorso a permettere di vivere uno spazio in cui sia chi parla sia chi ascolta si trovi a turno a parlare come soggetto e ad ascoltare come oggetto, in un processo circolare in cui la persona che ascolta è sempre al contempo l'oggetto delle parole di chi parla e il soggetto che le ascolta.
In questo senso, nell’alchimia della relazione la reciprocità non definisce il risultato, che è una funzione del “come” si sta nel rapporto. 
La reciprocità della cura ne disegna il movimento, inserendolo in una cornice, in un contenitore di cui il legame, e non le sole persone, sono il contenuto. 
Lo dicevamo con la collega e amica Daniela Parafioriti, il punto è sempre il legame, non la persona.
Come davanti ad un quadro, è sostanziale chi vi entra in relazione, gli occhi che regalano un abbraccio che lo avvolge in uno sguardo. Non già, non solo, non più il pittore.
Nel linguaggio comune, la cura viene rappresentata come un complesso di interazioni in cui si suppone che qualcuno ne chieda a qualcun altro, solitamente nella forma dell’aiuto. L'immagine sociale riproduce un'immagine gerarchica in cui chi chiede una cura la riceve da un altro che conosce la soluzione. 
Come scriveva Mindell [4], il rango è una droga. Sociale.
Il rango come una droga da cui si può disintossicare. Chiunque abbia sperimentato la cura nelle sue diverse forme, aspetti e posizioni, sa che l'unico soggetto della cura è chi la richiede, chi ne fa uso. 
Il soggetto come oggetto unico della cura. Un soggetto che va nutrito, di relazione e attraverso il farsi dialogo della relazione.
Parafrasando le parole della giovane collega Cecilia Terrenghi nella sua relazione di tirocinio, per abitare i discorsi occorre nutrire il soggetto di attenzione e premura nel maneggiare parole, linguaggi e stili relazionali e per permettere all’altro singolo, coppia o gruppo di scoprirsi soggetto della cura, di essere comodo nella scomodità di incontrare il proprio discorso, con i suoi inciampi e le sue aperture, all’interno di un flusso di reciprocità. 
Nella reciprocità della relazione, l’altro può permettere al soggetto di incontrare il proprio discorso ed in questo modo nutrirsi, imparare a nutrirsi.
Una domanda fa capolino: se la cura è nutrimento, di cosa si nutre la cura? 
In quanto relazione con una reciprocità strutturale, mi piace pensare che si nutra primariamente di onestà, una onestà che traspare anche quando qualcuno mente. 
Una menzogna dice sempre qualcosa della verità, è sempre testimonianza della verità di chi la parla, e l’intenderla dipende solo dal livello in cui la si legge o la si ascolta.
E allora, come funziona una struttura significante che risponda alla suggestione della testimonianza, dell'onestà intellettuale ed umana, della trasparenza, del chi sia “davvero” chi occupa una posizione di cura? 
È una domanda sulla possibilità di posizionarsi, una scelta non solo professionale, ma anche personale. E viceversa. La sento estremamente sostanziale. La sento etica e umana.
Non molti anni fa, il femminismo introdusse uno slogan importante, che recitava “il politico è personale, il personale è politico”, ribadendo nella sua assolutezza come non si fosse credibili in caso di distanza tra le parole e i fatti. Non si poteva fare la rivoluzione sociale in giro per il mondo e in casa non lavare i piatti. O peggio.
Questo pensiero mi pare applicabile alla domanda di testimonianza della cura rispetto alla vita.
Parafrasando quello storico slogan, potremmo dire che “il professionale è personale, il personale è professionale”. 
E dato che la cura è un modo per stare nel mondo, va da sé che ogni atto di cura sia di per sé un atto politico.
Lo considero una parte di un'etica strutturante, in cui come persone si testimonia la scelta di responsabilità rispetto al rapporto con il reale, in cui come bipedi, come esseri umani e come professionisti si abitano terreni comuni per discorsi, leggi, riferimenti, parole, atti.
Ma… come?
Qualche tempo fa, mi trovavo in trasferta per una sessione di lavoro con un gruppo piuttosto numeroso. Poco dopo aver iniziato, il gruppo mi interrogò su questo punto, con una domanda secca che non ammetteva tentennamenti:
“come si fa a capire quale sia la necessaria distanza tra il personale e il professionale?”. 
Non essendoci una risposta preordinata, risposi nel modo più onesto che mi fu possibile.
Ricordai che quella mattina mi ero svegliato come Paolo, avevo fatto la doccia, indugiando come al solito a bere parecchio caffè. La cameriera dell’albergo ormai mi conosceva, e mi portava le mie abbondanti tazze di caffè e il miele caldo con un sorriso benevolo: sapeva che quello era un rito di ingresso nel mondo che mi piaceva gustare con la dovuta lentezza.
Dopo colazione, avevo passeggiato come un turista guardandomi intorno lungo il tragitto conosciuto che andava dall'albergo al luogo in cui ci saremmo incontrati. Una volta entrato e preparato lo spazio di lavoro, avevo iniziato la giornata di supervisione che aveva portato a quella domanda.
In ognuno di questi momenti esistevano cose che sapevo: sapevo come avevo dormito e come mi ero svegliato, sapevo quanto e come stare sotto la doccia; sapevo anche come mi garba il miele e il caffè alla mattina, e poi la strada da fare per raggiungere il luogo in cui ci saremmo incontrati, infine, conoscevo buona parte dei quaranta partecipanti al gruppo.
Al contempo, in nessuna di queste occasioni avevo potuto presagire cosa sarebbe accaduto. 
Non potevo sapere se il letto dell’albergo sarebbe stato comodo né come avrei riposato, se la temperatura della doccia mi avrebbe rilassato, se il caffè sarebbe stato di mio gusto, il miele tiepido e un po’ voluttuoso, se la passeggiata sarebbe stata piacevole, né quale sarebbe stato l'argomento o come il gruppo l’avrebbe trattato.
Nel breve lasso di tempo dal mio arrivo in quella città, ero stato cose diverse, abitato posizioni differenti, ma ero sempre io, bipede e umano, persona e professionista, con la mia ignoranza e curiosità di scoprire cosa sarebbe accaduto, e come sarebbe stato.
Aggiunsi che sentivo come una possibile frattura l'affermazione assolutista secondo cui “non si può mischiare personale e professionale”, una frase che da doverosa legge di interdizione del passaggio all'atto, rischiava di trasformarsi nella giustificazione della distanza tra l'essere “bravo professionista” e l'essere “brutta persona”, come ironicamente si dice nel genovese. 
Conclusi che, come modalità di stare nei rapporti, non me la sentivo di consigliare la scissione posta dall’esclusiva “o professionale o personale”: solitamente, ciò che viene negato tende ad originare dinamiche agite di rango, di potere, di controllo. Non le considero un gran risultato, né un auspicabile punto di partenza.
Avevo detto la verità: non conosco la misura della “giusta” distanza. 
Invece di cercare di appoggiarmi a granitiche certezze, a ciò che sapevo, avevo preferito lasciarmi trasportare al mistero dell’incontro, sapendo unicamente che la consapevolezza, l'umiltà che deriva da ciò che non conosco, la competenza e l'assunzione della responsabilità di poter sbagliare mi aiutavano laicamente a mantenere trasparenza, umiltà e onestà, rendendo la complessità dell'essere centrata su chi ero e sulla natura del rapporto che stavo condividendo con l’altro che avevo davanti, individuo o gruppo, e che in qualche modo mi definiva. Quello era il meglio che potevo fare, senza alcun assoluto.
È il mio modo di abitare quello spazio in cui la magia della parola si dispiega e che solitamente chiamiamo setting. 
Ho sempre preferito considerare il setting come il luogo in cui la relazione avviene, qualunque esso sia, e non il luogo in cui il professionista siede comodo dietro le proprie certezze e difese di rango.
Il setting è quel luogo scomodo in cui incontrare comodamente l’altro.
A prescindere dal rango, dal ruolo e dall'estetica, il clinico, l'educatore, l'insegnante, il terapeuta, il genitore, il partner, il collega, l’amico/a, il gruppo, l'essere umano sono tutti/e implicati in questo posizionarsi e in questi movimenti. 
Dato che tutti sono abbastanza in grado di auto-definirsi, la questione interessante riguarda l’interrogare cosa rimanga della nostra umana quotidianità come risultato netto. 
E poi, cosa possiamo intendere esattamente con il “netto”?
Mi piace abitare un processo in cui si possano incontrare elementi considerati alti come la filosofia, la fisica e la psicologia, con elementi più semplici, come un cartone animato o un’immagine del quotidiano, ricordando che esiste un piano netto, imprescindibile, che nella dimensione della metafora unisce i linguaggi. La verità è ovunque, ed essendo diversa per ognuno, apparecchia metaforicamente la tavola all’incontro. Come scriveva Platone, le metafore sono assai diverse dalla concretezza al netto della realtà. 
Come intendere allora il “netto della realtà”?
Se compro un chilo di mele, possono essere esteticamente belle, possono essere colorate e profumate, o essere piccole e bitorzolute mele di montagna. Possono esser acquistate in un mercato rurale, in un supermercato o raccolte dall'albero. Chi le vende può muovere simpatia, antipatia, piacevolezza. La confezione può essere ecologica ed essenziale o eccessiva e inutile. Tutte queste variabili esistono, ma sono accessorie. Sono tara e lordo. Se le mele incontrano il gusto individuale di chi le mangia, questo è il netto del reale a cui mi piace fare riferimento.
Mi piace pensare che alcune regole siano sostanziali oltre che esistenziali, e che queste parti siano necessariamente separate per poter esistere entrambe applicando l'adagio di Einstein per cui il processo non va dai fatti alle supposizioni teoriche, ma da queste ai fatti. In aggiunta, oltre alla teoria e ai fatti, c’è un terzo elemento significante: la relazione. Come scriveva Irvin Yalom [5] rispetto alla clinica e alla cura, essa «... non dovrebbe essere guidata solo dalla teoria, ma anche dalla relazione ...». 
Abitando il processo relazionale muovendo dall’assoluto, si rischia di cercare nell'altro ciò che non si è disposti a riconoscere in sé. Si cercano conferme di ciò che, più o meno consapevolmente, si sa già. Introdurre la relazione permette di aprire all'ascolto dell'altro e di sé all'interno della complessità del rapporto, destituendosi dal sapere.
Mi piace rispondere alla domanda di testimonianza unendo la semplicità delle regole che applico nella vita come nel lavoro, ovvero il semplice principio fisico di reciprocità: ciò che vale per me, vale anche per l'altro (sia singolo che gruppo); ciò che vale per l'altro (sia singolo che gruppo), vale anche per me. 
Prendersi cura delle persone che ci portano e prestano le loro parole, le loro significazioni e il loro costruire narrazioni è un mestiere meraviglioso. Impegnativo. Delicato.
Per quanto possa a volte apparire bizzarro, la parte più complicata di una posizione di cura non sta nel trovare le risposte o le soluzioni corrette, quanto nell'essere abbastanza onesti con sé stessi da mantenersi aperti e indipendenti dai pregiudizi del proprio rango e dai preconcetti del proprio sapere, liberi di porsi e di porre domande con la corretta punteggiatura.
Significa essere sufficientemente in ascolto da accompagnare chi ci parla ad ascoltare la soluzione che è implicata ed implicita nella domanda che viene posta.
Accompagnare le persone a sapere ciò che non sanno di sapere. Come ricorda Nicolò Terminio, il transfer è tutto li: il transfer è, al netto, il soggetto supposto sapere.
Come lavorarlo? O meglio, come lasciarlo lavorare?
Un manager, uomo di cultura e di successo, portò la sua domanda rispetto ad un proprio sentirsi drammaticamente in disequilibrio. Fintanto che dirigeva le sue attività localmente, tutto andava per il meglio: ogni cosa organizzata, pianificata, funzionale. Un successo. In seguito, una promozione lo portò a dirigere stabilimenti anche fuori nazione, e iniziò a fare il pendolare con l’estero.
A differenza del passato, ora metà del suo tempo era vissuto in un altro paese, esposto ad altri orari, ad un’altra lingua, altre abitudini. Non era tanto l’impresa in sé che lo turbava, quanto un ingresso così importante di tutto questo “altro”.
La possibilità di significare questo s-bilanciamento tra ciò che era noto e ciò che veniva avvertito come altro da sé, come esterno, permise di illuminare una meticolosità in cui tutto doveva «... seguire per filo e per segno …» uno schema previsto, preventivato, predeterminato, preparato.
Finché viveva nella dimensione “pre-”, tutto filava liscio. Il controllo era totale. Quando qualcosa d’altro faceva ingresso nello schema di ciò che lo precedeva, questo “altro” era percepito come disturbante e intollerabile. Magia illusoria e sfiancante del tutto sotto controllo.
La soluzione, come sempre, è già contenuta dentro a ciò che viene percepito come problema. 
Questo uomo colto, manager di successo, la incontrò una sera guardando la lavastoviglie: «... non è necessario seguire per filo e per segno sempre lo stesso schema, la stessa disposizione di piatti sporchi… si lavano lo stesso anche se sono messi in modo diverso, e se qualcosa rimane sporco, lo posso sempre lavare in seguito a mano … nella vita, come in una lavastoviglie, posso portare dentro un ordine diverso, impostare un programma differente, e affrontare il risultato prima di apparecchiare la tavola, riordinare la credenza, o lasciare tutto così come è…».
Sintetizzò il processo che aveva vissuto in modo esemplare «… per fare questo lavoro di prendersi cura, occorre “scomunicare la comunicazione”, riposizionarsi nel proprio rapporto tra il significato che attribuiamo a ciò che sta fuori di noi e quello che sta dentro … dal momento che so bene solo cosa prevedo, posso affrontare ciò che accade con serenità… è un pensiero estremamente liberatorio…».
La plasticità sta non tanto nell'avere un più o meno vasto bagaglio di nozioni pregresse, di teorie di riferimento, di interpretazioni possibili, di verità assertive da redistribuire, quanto nel mantenere la posizione di quelli che restano, sempre, di fronte alle parole dell'altro. Possiamo restare nel resto, dato che il resto è mancia, o manca.
Possiamo concederci di stare nel resto dell'altro, in quello spazio insaturo, costruito a partire dalla nostra ignoranza per ciò che dell'altro non sappiamo, rimandando in questo modo la possibilità che l'altro della cura, che ne è il soggetto primo, possa abitare questo spazio.
Abitare il resto in un rapporto di cura, ma anche in un rapporto sociale, familiare, amicale o di coppia, implica un abitare comodamente la scomodità. 
Significa aprirsi consapevolmente a un processo de-istitutivo, trovando il proprio individuale modo di abitare con scomoda comodità lo scarto che c'è tra la cura e la guarigione, tra il sentirsi i soggetti della cura di fronte alla persona che la richiede, divenendone per la grammatica il suo oggetto.
Oppure vivere la comoda scomodità di essere “prestati” alla cura dell'altro, facendone testimonianza, e accompagnando la persona che richiede la cura a divenirne il soggetto primo, avendo come oggetto non la guarigione ma la possibilità di avvicinarsi a esplorare e dirne qualcosa del proprio singolare bene-essere, anche se trovo più corretto parlare del proprio unico e peculiare “al-meglio-essere”.
La relazione, qualsiasi relazione, è un gioco continuo di rimandi, reciprocità e rispecchiamenti in cui l'abitare una posizione di consapevole e onesta ignoranza può essere elemento sostanziale, dato che 
il soggetto, ogni soggetto, è sempre e soltanto nient'altro che una supposizione [6].
In questo senso, il processo di soggettivazione e di destituzione può porre ulteriori domande interessanti su cosa significhi la posizione dello scarto.
Lo scarto non è solo ciò che si elimina, che si esclude scartandolo. È anche e soprattutto ciò che segna una differenza tra l’uno e l’altro, è la distanza che consente la relazione, di cui ne è il contenitore. 
Come riconoscersi in un tempo in cui la difficoltà pare essere il rispecchiamento nella dimensione sociale e culturale che rimanda in generale una sostanziale inutilità di chi sceglie di occuparsi degli scarti, del resto?
Abitare la posizione del resto in una dimensione sociale comporta un accettare una mancanza ad essere completi e completamente compresi [7].
La modalità con cui viene vissuto lo stare nel resto del discorso dell'altro interviene in modo sostanziale sul risultato, dato che al di là delle narrazioni che se ne possono fare, al di là del bene e del male, i diversi modi di abitare la dimensione transferale di permanere nel resto dell'altro vanno da un estremo in cui viene indicibilmente annullata e forclusa ad uno in cui viene vissuta con comoda scomodità, curiosità e ignoranza.
Mi piace pensare che gli opposti non siano necessariamente contrari, e che possano dare un'idea visiva di delimitazione del campo della cura, tra un orizzonte silenziosamente bulimico-narcisista e uno aperto alla generatività nell’accezione di fase post-narcisista a partire dalla pacificazione dell'esistenza dell'io radicale, in favore di una radicalità aperta e non assertiva.
Ad un estremo, la negazione del rango e della possibilità di riconoscersi in questo resto porta a narrazioni da adulti in gita liceale che raccontano una sospensione dal reale di tipo onnipotente, narcisista e compensativo come nelle espressioni ahimè conosciute del tipo «… iosono-iosono-noisiamo … tutto quello che succede qui (convegno, workshop, corso), rimane qui…sono sociale perché nei social mostro cosa mangio… ».
Queste frasi sostanzialmente tappano nell'atto concreto ciò che viene forcluso altrove, in un esercizio silenzioso del potere che sfocia in conflitti di rango o in fughe nel “romanticismo” concreto.
Jason Ward, amico e collega inglese, ne diede un’immagine perfetta: “some people life is a selfish-selfie one”. Un vivere nell’ e dell’immagine ritratta di sé.
È una assertività narcisista, auto-ri-ferita, compensatoria e come tale in-ammissibile, in cui si omette l'evidenza dello stare nel resto dell'angoscia attraverso la ricerca di dimensioni fuori da sé, su cui ci si interroga senza sosta, con uno slittamento verso immagini da letteratura del grande fallo e della vagina divora-mondo tanto cara al mondo di Vonnegut. Una sorta di pornografia esistenziale.
Considerato che purtroppo la si ritrova tanto comunemente nel panorama odierno, cosa ci sarà di fascinoso in questa posizione? 
La possibilità di continui rimandi all'io-io-io individuale e/o professionale, trovando nel rapporto bulimico con l’altro la rassicurazione di una tenuta di rango, facendone anzi un “più” senza bisogno di nominarla. Un più compensatorio e narcisista, immaginario e iperrealista, che si rivela in trasparenza per il suo essere ameno.
All'estremo opposto, troviamo una posizione esistenziale che sceglie consapevolmente di smarcarsi dal sapere e dall'assertività, che nomina il rango per destituirsi e farne a meno in favore di un'ignoranza che consenta di intra-vedere le dimensioni sociali e di significazione dall'interno.
È una posizione in cui ci si autorizza ad abitare una propria ignoranza senza il bisogno compensativo di colmare alcunché, ma anzi aprendo all'entrata vivifica del mistero che può essere sempre e solo significato a ritroso, mai pre-visto o pre-venuto. 
Un mistero che lavorerebbe da significante sul piano di attributo ed effetto, determinando un processo dinamico di de-istituzione del soggetto che si pone di fronte all'altro in una reciprocità di doni senza chiedere nulla in cambio.
Sapere chi si è, per quel che si può, per poi farne a meno nell’incontro con l’altro, e nella relazione scoprirne il significato. Ecco lo scarto. Come dicevano un tempo le nonne, “a volte per aprire una porta è necessario fare un piccolo passo indietro e uno scarto di lato”. 
È la consapevole esplicitazione del rango che consente di farne a meno, aprendo alle diverse posizioni del prendersi nella cura, che è sempre un prendersi in cura. 
Proprio come ricordano le nonne della tradizione popolare, aprire una porta implica sempre un addentrarsi in ciò che è dall’altra parte, implica un aprire ad una stanza altra. Nell’apertura all’ignoto della relazione è comunque prioritario il riconoscimento del proprio io, anche in senso narcisistico. 
Curiosamente, la lingua italiana consente il soggetto sottointeso, ammette cioè la correttezza strutturale di un’azione senza che ci sia un soggetto di cui ne sia espressione, che ne sia responsabile. In questa particolarità possiamo situare forse una specificità sociale, una particolare modalità tipicamente italica di non assunzione di responsabilità diffusa e permeante ogni strato sociale, dal politico allo studente, dal collega al partner, dall’imprenditore al disoccupato.
La destituzione del soggetto, il suo smaterializzarsi come ci insegna la fisica quantistica, si basa su un semplice presupposto: un soggetto per potersi destituire deve prima poter essere e potersi riconoscere, essere presente a sé e alla sua istituzione, che sarà comunque un’istituzione amata.
A fronte di una sempre più opprimente e diffusa dialettica predeterminata, quasi dogmatica del sapere, ci si assume la responsabilità di una posizione che abita quel resto dell'indicibile che diventa terreno di esplorazione del rapporto con l'altro, e di significazione retroattiva.
Fino alla fine della frase, possiamo solo supporre il senso complessivo. È la fine della frase che significa l'intero discorso, retroattivamente.
Una persona entra in un caffè. Pluff.
È la struttura del linguaggio che ne determina il significato e le posizioni. 
Diversamente dall’italiano, la lingua francese indica in modo esplicito con due pronomi differenti i diversi aspetti del soggetto, il “moi” parlato da fuori, ovvero quello che si riceve dalla narrazione sociale, e il “je” parlato da dentro.
Vediamo due semplici esempi. “C'est toi qui existes? Oui, c'est moi”: alla domanda affermativa su chi tu sia, l’io risponde riprendendo l’affermazione che domanda.
“Je suis celui qui existe”: in questa affermazione il soggetto parla dall’interno, senza la necessità di una narrazione esterna a cui fare riferimento. È un soggetto che parla, che è parlato, dall’interno.

Dal momento che prima e oltre il ciò che si fa, si è ciò che si è, si tratta di scegliere come posizionarsi su un continuo che recupera la dialettica di Nietzsche [8] tra l'essere-ciò-che-si-è-diventati e il diventare-ciò-che-si-è.
Incontriamo il primo caso ogni volta che sentiamo espressioni come “…non ci si può proprio fare nulla, è il mio carattere … ormai è così da sempre …”. È una chiusura in un passato che ci determina con la sua ripetizione, facendo capitare ciò che “non deve” proprio in virtù del suo essere un dovere di negazione. Si tratta di una posizione che mira alla conservazione di ciò che è passato, del rango che viene forcluso e agito, e di cui nulla si può dire.
Il secondo caso è raccolto in un discorso di apertura a ciò che è possibile in quanto non è ancora, un divenire che si farà futuro anteriore in virtù di ciò che saremo stati, e che ancora non conosciamo. È una posizione tendenzialmente ansiogena, in cui il rango non interviene come difesa corporativa del passato, ma come apertura alla generatività del mistero del divenire. 
L’autorizzarsi al mistero di ciò che può essere segna il riconoscimento implicito di un’etica laica del permanere nel resto, aprendo all'ignoranza e al piacere della scoperta, consentendo un godimento altro che genera e rigenera attraverso l'abitare uno spazio insaturo in cui i significanti possano lavorare a partire dall'incontro sul piano simbolico.
Come viene attribuito ad Anassimandro [9], il
“principio delle cose che sono è l'infinito… donde le cose che sono hanno generazione, là hanno il dissolvimento secondo la necessità. Infatti esse si rendono l'una all'altra giustizia ed espiano l'ingiustizia secondo l'ordine del tempo.” 
2500 anni dopo, Blixa Bargeld [10] recita
“due sole cose sono infinite: l'ignoranza e lo spazio ... Cosa è, è ... Cosa non è, è possibile ... solo ciò che non è, è possibile ...” 
Fuori dalla matrice della auto-rappresentazione, il funzionamento di soggettivazione dei singoli, dei gruppi, e più in generale del processo di significazione del rapporto con sé, con l'altro, con il sociale, disvela come ciò che è cercato sia già presente in un mondo interno che attende di essere svelato e disvelato, spogliato dal misconoscimento conservativo e compensatorio dell'immagine residua di sé, abbracciando uno spazio nudo, insaturo e destituito.
Da qui possiamo aprire uno spazio in cui svelare e disvelare l'oscurità delle leggi che governano un funzionamento che è sempre sia interno che sociale, implicando nel processo stesso la possibilità di dar loro parola. E di ascoltarla nel suo parlarci.
Potremmo dire che un lavoro di cura si appoggia su un processo di soggettivazione che liberi il soggetto dall'assolutezza dell'essere tale, permettendo alla singola persona la difficile e a volta dolorosa entrata nel reale del legame con l'altro attraverso la generatività, il linguaggio, il prestito reciproco delle parole. 
Abitare lo scarto di questa supposizione implica un muoversi a partire dal discorso dell'altro, un essere in grado di includere le significazioni e i linguaggi dell'altro, anche quando e se variano o sono rovesciamenti del consolidato e del conosciuto.
Di fronte a ciò che sappiamo, possiamo aprirci al mistero di ciò che sarà stato.

---
riferimenti
[1] I. Yalom, Il dono della terapia, 2002, NeriPozza
[2] E. Erikson, Infanzia e società, 1950, Armando ed.
[3] H. Arendt, Vita activa, 1958, Bompiani
[4] A. Mindell, Essere nel fuoco, gestire la diversità e il conflitto nel lavoro di gruppo come strumenti di trasformazione sociale, 201, Terranuova
[5] I. Yalom, Il dono della terapia, 2002, NeriPozza ed.
[6] J. Lacan, Il seminario libro XXII, Il Sinthomo 1975/76, Astrolabio ed.
[7] P. Brusa, Cinque discorsi: competenza, economia, migranti, reciprocità e coproduzione, benessere e bisogni, 2016, http://www.paolobrusa.it/2016/07/appunti-e-spunti-dalla-conferenza.html
[8] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1835, Adelphi
[9] Frammento tratto da una citazione di Simplicio (VI d.C.), Physica 24, 13
[10] Einstürzende Neubaten, Was ist ist, in Ende Neu 1996. “zwei Dinge sind unendlich: die Dummheit und das All … Was ist, ist ... Was nicht ist, ist möglich … Nur was nicht ist, ist möglich”

Commenti

Post più popolari