I pensieri del dentro (7) – Tempo, spazio, esistenza.

… Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare /
La dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi / Venezia, la vende ai turisti ...
F. Guccini, Venezia, 1981

Ci sono immagini che si offrono a noi: indirizzano uno sguardo, come alla fine di una calle, aprendo la visione su una laguna di sogni, sogni sognati e sogni desti, disseminando il panorama che si apre davanti a noi di una marea di storie, di storia, di vita e di vite che passano, che incrociamo, che abitiamo semplicemente permettendoci di viverle. Orme di passi che si avvicinano, si allontano, si incontrano.
Orme di vita. Ormai. Ora e/o mai. Ovvero, sempre.
Un vivere collettivo indirizzato su un registro immaginario può ancora interrogarci su quanto ci sia del reale, e così aprire uno spazio che introduca un girotondo con la significazione del simbolico.
Capitare a Venezia nei giorni della Festa del Redentore significa un’immersione in questo girotondo.
Il rintocco delle campane chiama a raccolta indiscriminatamente credenti e turisti, fedeli del credo come turisti affezionati al rito dell’ipo-critica presenza. Turisti sorpresi a porgersi come attori in-consapevoli dell’atto del consumo per il consumo, in una sorta di ipocondria per l’insaturo.
Osservare lo scorrere del mondo intorno, annotando con curiosità come il discorso del capitalista si sostenga come un’ipocondria della mancanza, un’illusione quasi disordinata delle funzioni digestive che non sono più in grado di trattenere il vuoto. 
Un vuoto che è profonda malinconia del tutto-pieno, quasi che il mistero del divenire fosse uno spazio in cui si rischiasse di soccombere. 
Ipocondria, appunto.
Nulla succede per caso, recitano Platone e Master Oogway.
A Venezia la Festa del Redentore riproduce lo sdoppiamento dei discorsi sui diversi registri.
Sul piano storico, il sabato che precede la terza domenica di luglio si celebra la fine dell’epidemia di peste che per due anni, dal 1575 al 1577 afflisse Venezia. Da allora, con cadenza annuale, la festa unisce riti religiosi, con la benedizione del vescovo e diverse messe, e civili, con un grandioso spettacolo pirotecnico.
Il momento simbolico vede la costruzione di un lungo ponte votivo di barche, allestito sul Canale della Giudecca collegando l’isola con le Zattere all’altezza della Chiesa dello Spirito Santo, un ponte che unisce il luogo del dramma con quello della sua liberazione e della gratitudine simbolica.
Uniti dal ponte, il popolo poteva di nuovo uscire e abitare l’incontro: lungo i canali e le calli, si apparecchiano tavolate in cui si condivide il cibo che si porta.
Oggi, come quasi 500 anni fa, viviamo l’uscita da due anni di pandemia e di chiusura di un popolo murato in casa. 
Assistendo all’oggi, il discorso della celebrazione e della tradizione si sdoppia.
Da una parte, migliaia di bipedi sciamano verso piazza s. Marco, la Giudecca, le zattere, pronti a qualsiasi controllo e limitazione pur di non perdersi lo spettacolo pirotecnico, tecnica di fuoco che accompagna il consumo di tutto ciò che è simulacro di venezianità.
Da una parte altra, in un altrove fisico composto da piccole corti e di calle nascoste, di canali quieti dalle sponde accoglienti, si incontrano le persone che abitano i palazzi, condividendo il cibo in uno spazio comune, in un tempo che torna comune, nel senso di gratuito e abitabile da chiunque lo desideri.
Curiosamente, il termine Redentore, nel suo etimo di participio passato di red-emptus indica sia il ricomprare che il liberare. 
Per la sua celebrazione, entrambi hanno cittadinanza e si distribuiscono semplicemente in zone diverse di Venezia, una diversità che permette all’uno di essere altro per l’altro.
Ciò che permette all’uno di essere altro per l’altro è il passaggio dall’ “o…o” all’ “e…e”.
La nozione logica di “o…o” ha un valore esclusivo nel senso della difesa primaria del rimuovere ciò che è implicitamente presente nella seconda proposizione, come nel caso di “o una cosa o un’altra”.
Nel senso più profondo e radicale indica un esentare e privare della relazione ciò che segue, ciò che altro. È una non ammissione, o meglio un’ammissione per negazione. Una negazione del registro del reale che nel costruire la proposizione “una cosa o un’altra” lo ammette per escluderlo come opposto. 
Curioso che con l’ingresso del simbolico nel registro del reale, come insegna la fisica e la logica, due opposti presenti al contempo non possano che equivalersi.
Il che equivale a dire che si genera una sovrapposizione indefinita, uno stato indefinito e uno stare nell’intermedio per sdoppiamento in cui si passa al registro “una cosa e un’altra”.
Il modo più semplice per cogliere questo movimento è il gioco dell’ “indovina la mano”. Se ho una moneta in una mano, e posiziono le mani dietro la schiena, questa sarà sicuramente nella mano destra o nella mano sinistra sul piano della realtà materiale concreta. Per chi mi sta di fronte e gioca con me, la moneta sarà indistintamente in una delle due mani, e per ciò che ne sa potrebbe essere in entrambe. La moneta si trova cioè in uno stato preciso, nella mano destra o nella mano sinistra.
Per chi mi sta davanti, la moneta sarà in uno spazio non determinato, di cui la persona non sa. Pur essendo fisicamente determinato, per l’altro è indeterminato.
Termine curioso, che nella grammatica ha insieme valore passivo (che non è determinato) e attivo (che non determina).
La grammatica ci ricorda quanto detto da Heisenberg: l’indicazione generica della qualità e della quantità di ciò che è nominato.
Di fronte all’altro, che sa in che mano è la moneta, cosa posso farmene del mio “non” sapere?
Se interpreto non comprendo, ma copro l’altro e il mio ignorare, con la mia posizione. 
Oppure posso fare una scelta differente. Posso stare davanti all’altro interrogando il suo desiderio, dando alla mia posizione i confini sfumati di uno spazio da abitare.
Questo esercizio, richiede un mettere a dimora le aspettative, che di per sé chiamano sempre un che di narcisista e di prestazione che si sviluppa su un doppio binario. 
Da una parte l’aspettativa verso l’altro come istituzione rimanda ad un plus di valore. Dall’altra, l’aspettativa verso sé rimanda ad un plus di utilità. Sono entrambi scivolamenti in un discorso che parla la lingua del valore e dell’utilità.
Buon vecchio discorso capitalista lacaniano e marxiano.
C’è un punto semplice e importante al contempo che appare nei discorsi, e che riguarda la difficoltà ad essere divergenti rispetto ad un universo mercantile e moralista che mette tutto al servizio del valore in un’accentazione che rimanda tanto al discorso del capitalista illuminato da Lacan quanto alla precedente prospettiva marxiana. 
Quando chiunque si erge a giudice, tutto è valore e ovunque è consumo. 
Ogni cosa finisce per essere consumata dal giudizio di valore.
Possiamo autorizzare una scelta divergente, abbandonando la centratura sull’assoluto rappresentato dall’istituzione, dal servizio, dal rango sociale, e permettere una centratura sull’unicità della persona.
Centrarsi sull’unicità della persona implica già una logica della distanza e del mistero, e introduce di per sé la relazione, che può essere vissuta su piani differenti.
Se la distanza interviene come metro della cifra relazionale, si rischia di incontrare l’altro identificandolo come etichetta “rifiuto, problema, patologia”, e ci potremo ritrovare a constatare, come disse una collega nel momento del disvelamento “…non conosco la realtà anche se la abito tutti i giorni…”.
Aprire lo spazio della relazione all’unicità dell’altro implica un destituirsi del proprio rango in favore di un incontro, sola dimensione che permette l’emergere, e di conseguenza la sola vera emergenza, di ciò che manca, ciò di cui ci sarebbe bisogno e desiderio.
Mi piace ripetere che ognuno pensa, dice e fa sempre la cosa giusta. Non perché sia giusta in assoluto. Non penso esista nulla di assoluto. Semplicemente perché se così non fosse, penserebbe, direbbe o farebbe qualcosa di diverso. Sarà poi il divenire, il ciò che accade nella vita e nelle relazioni, che potrà dire se qualcosa di nuovamente giusto interverrà nei pensieri, nei discorsi o nelle azioni. Introducendo una differenza con cui essere in relazione, una differenza del sintomo che può aprire e disvelare linguaggi nuovi dell’essere.
In questo modo, come mi diceva una persona, “…ho capito quanto profonde fossero le mie strutture di giudizio…ho sempre pensato di essere una persona profondamente laica, invece senza volerlo mi ponevo come moralizzatrice e questo mi faceva scivolare nel discorso della colpa … se accetto che ogni cosa che penso, dico o faccio sia giusta per me, per la mia legge interna, cambia tutto … significa che posso assumermene la piena responsabilità … e se la storia che avrò vissuto mi dimostrerà qualcosa di diverso, potrò cambiare il mio pensiero, il mio dire, il mio fare … nessuna colpa, solo un passo in più di consapevolezza… non è facile, ma è anche semplice …”
Nell’incontro con l’altro, come nell’incontro con l’immagine che abbiamo di noi stessi (che tra parentesi in quanto immagine è in qualche modo anch’essa un altro da ciò che siamo) possiamo sottrarci all’imperativo consumistico dell’interpretare, evitando di coprire il mistero di ciò che non conosciamo con il nostro supposto sapere. Possiamo cioè scegliere: incontrare l’altro, così come noi stessi, in modo assoluto e assertivo, oppure interrogando il nostro desiderio. Permettendo al desiderio di parlarci. Nel tempo, nello spazio, nell’esistenza.
Tempo. Spazio. Esistenza.
Tre parole che esistono in una modalità peculiare per cui tempo e spazio non sono entità a sé stanti, sono al contempo attributi e apposizioni dell’esistenza. Sono relazione e in relazione. 
In quanto attributi sono proprietà della relazione, che nella grammatica dello scambio diventano apposizione nel senso etimologico di ad-ponere, ossia cogliere nel vero e mettere in fallo.
Il discorso simbolico che si determina è discorso individuale che si fa relazione interna e, nel suo dispiegarsi di fronte all’altro, è già dimensione sociale.
Il Lacan che indica come nella storia individuale e collettiva, si esista al “futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire…” [1], ci dice di un esistere per relazione che incontra la fisica quantistica che definisce le relazioni come causalità in cui gli elementi dello spazio-tempo sono sia eventi causati da eventi del loro passato, sia che ogni evento diventerà causa di eventi nel futuro[2].
Interessante convergenza.
Tutto ciò che si fa parla di ciò che siamo in una relazione spazio-temporale in cui ciò che saremo stati è determinato da ciò che stiamo per essere. 
In questa prospettiva, l’atto di mettere parola è ciò che consente di incontrare la propria significazione nello scambio con l’altro, avendo un rimando con ciò che c’è di reale nel nostro essere ciò che siamo, e nel nostro fare ciò che facciamo. È lo scarto che definisce il modo peculiare e irripetibile di significare un’esistenza.
L’ex-sistere è sempre un essere nell’atto di essere, in una rivoluzione copernicana in cui lo straniamento del restituire al tempo e allo spazio il mistero del suo silenzio, le sue aperture al vuoto si pone come un altrove rispetto alla bulimia dell’avere per essere, del vuoto che si dice pieno e si vuole pieno, colmo. 
Quasi che il colmo dell’esistere sia un pretendersi pieno nel tempo e nello spazio.
Come in una barzelletta, il colmo fa sorridere per ciò che manca. 
Per il tempo e lo spazio che solo se mancanti di pieno possono aprirsi e accogliere il desiderio che invita alla vita e alla sue opportunità.
La grammatica del discorso dell’opportunità può dire cose molto interessanti, indicando ciò che è opportuno, disvelando non solo ciò che è comodo per il passaggio e favorevole ad uno scopo, ma anche ciò che etimologicamente viene a tempo in taglio secondo il bisogno e il desiderio.

[1] J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, 1953
[2] L. Smolin, Spazio, l’ultima illusione, 2019


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