I pensieri del dentro (6) - Dar parola alle parole della cura. Parole in prestito

… sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l'oceano di quanto non sappiamo, 

brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciano senza fiato.

C. Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica  

Le parole, per loro natura, si prestano. Come spesso accade, le persone con cui lavoriamo o che incontriamo, portano parole che ci vengono prestate, e che si prestano a dire qualcosa di ciò che esprimono.

La meraviglia delle parole è che, nel passaggio da un parlante all'altro, ognuno se ne appropria.

Mi ha sempre affascinato la doppia natura delle parole, il loro arrivare come un prestito dei pensieri e delle emozioni di chi ci parla, e al contempo il loro essere restituite per dare voce al nostro mondo interno, al gioco, al pensiero, alla seduzione, alla riflessione. Sono le parole e il linguaggio a dischiudere il mistero di cosa accada e come si strutturi la relazione che abbiamo con l'altro e che ognuno ha con sé stesso. 

Nel gioco del rispecchiamento relazionale, le parole ne sono i preziosi vettori: passando dall’uno all’altro, e ritornando ciclicamente in ogni scambio, raccontano storie, parlano, dicono qualcosa dell’altro con cui parliamo e nello stesso momento alzano un velo sulla persona che davanti all'altro si pone, ovvero noi stessi.

Tutte le parole che incontriamo e che utilizziamo raccontano una storia, in cui è concesso affiancare linguaggi tra loro diversi, che si sono potuti incontrare, contaminare, prestandosi parole, immagini e significati in un gioco metaforico a cavallo tra psicoanalisi, fisica, vita quotidiana e pratica della cura.

Ogni storia ha la sua storia, così come hanno una loro storia le singole parole che compongono le differenti storie. È in questo spazio di significazione che lavorano i nostri significanti in una girandola generativa che non ha mai fine proprio in virtù del continuo prestarsi di parole.

Ho imparato a farmi contaminare dalle storie, dai linguaggi, dai discorsi delle persone. Ad aprirmi alla meraviglia invisibile, e a volte quasi eretica, di dove possano portare l'ignoranza per quel che dicono. 

L’ignoranza è forma sostanziale del rapporto umano. È uno stare davanti all’altro senza porsi come divinità, senza porsi come detentori di un sapere assoluto. 

Come moderni Icaro, da un lato siamo tentati continuamente dall’ebbrezza del volo verso l’assoluto del sole, dall’altro siamo portatori del sapere trasmesso da Dedalo, che ammonisce dal scegliere un destino di rincorsa dell’assoluto, pena la caduta nel mare. 

Possiamo volare nel cielo dei significanti a patto di non cedere alla tentazione di raggiungere l’assoluto del sole: è lo stare in questa distanza che consente di aprire nuove e sconosciute direzioni, sfuggendo al labirinto che abbiamo costruito nel passato.

Di fronte all’altro, come di fronte a sé stessi, siamo portatori di una mancanza dal conoscere tutto: non possiamo mai sapere con certezza assoluta cosa l’altro mi stia dicendo e svelando di sé nelle parole che mi offre, che mi presta.

Proprio l’impossibilità di conoscenza assoluta determina una mancanza del “tutto pieno” e definisce una ignoranza strutturale che richiama costantemente l’adagio che Platone[1] fece dire a Socrate “ero l’unico a sapere di non sapere, a sapere di essere ignorante” ci regala l’immagine di una impossibilità di fondo a comprendere, facendo albergare il sapere proprio in questa mancanza di sapere, generatrice di desiderio. 

Le parole, nel non poter mai essere comprese sino in fondo, permettono di calarsi in spazi logici, umani ed emotivi sempre nuovi, sempre sconosciuti, sempre generativi e vitali.

Trovo questo un esercizio di un erotismo simbolico quasi necessario.

L’incontro con l’altro è sempre un incontro di immagini che ci parlano, è sempre un incontro tra parole parlate, segnate, uno spazio di gesti e di silenzi. Uno spazio sacro nel suo poter essere mantenuto aperto e mai saturo di assolutismi e assertività.

L'incontro con l'altro offre sempre l'opportunità di uno spazio invisibile, che possiamo non saturare, inconoscibile a priori. È in questo spazio libero che può esistere un rapporto, nascere una relazione, svilupparsi una reciprocità.

Spazio di parola e di immagini, di ascolto e dialogo, con la consapevolezza del proprio linguaggio e della disponibilità ad essere contaminati da quello dell’altro, con una curiosa creatività che consenta di trovare, inventare e re-inventare nuove sfumature di significanti capaci di abbracciare l’alterità nel tempo presente dell’incontro.

Ogni persona, all'interno di ogni relazione, è più o meno consapevole di quale posizione abbia scelto di abitare, con ciò che ne consegue nel rapporto in termini di posizionamento, onestà intellettuale, umiltà, consapevolezza, modo di vivere, di raccontare e raccontarsi.

Esplorare il “come” delle posizioni che si assumono nella relazione è lo spunto di partenza per riflettere su quale sia la natura delle parole all'interno del processo di cura.

Il gioco della relazione comporta un continuo sperimentare come le parole siano portatrici di una transitorietà di significati, che possiamo prendere ma mai afferrare.

Come di fronte al mare, possiamo scegliere di incontrare l’onda, e l’atto di prenderla non rimanda ad un afferrarla, ma ad un farsi trasportare, un abissarsi, un passarvici attraverso, un farcisi sommergere come anche un cavalcarla.

Proprio come davanti ad un’ondata di parole, nell’incontrarsi dei discorsi ognuno dei parlanti abita un piano comunicativo superficiale ed esterno, e ad un livello interno, un piano simbolico in cui sperimentare l'ebbrezza dell'immersione nei significanti, in cui la particolare significanza di una parola si disvela retroattivamente, a partire dalla singolare storia di vita di ognuno.

Da questa scelta dipende la definizione di una forma della relazione, che avrà una costruzione grammaticale tra soggetto e oggetto che varierà in un continuo che spazia da un estremo caratterizzato dall'assertività dell'io-io-io, all’estremo opposto costituito da un porsi socraticamente come soggetto destituito dalla supponenza del proprio sapere. 

La destituzione del soggetto è un processo di dismissione da una posizione che implica volontariamente o meno elementi e/o agiti di rango, di potere, di prevaricazione o corruzione di una posizione di apertura alla cura e all'altro, e che consente di abbracciare il mistero di ciò che si ignora, a prescindere da quanto si conosca o si sappia.

Questo gioco dell'ignoranza relazionale è bene illustrato da Bernard Werber[2] quando dice come “tra ciò che penso, ciò che voglio dire, ciò che penso di dire, ciò che dico, ciò che l'altro vuole sentire, ciò che ascolta, ciò che pensa di capire, ciò che desidera capire e ciò che capisce, ci sono almeno nove possibilità di non capirsi … La comunicazione è molto difficile perché siamo pieni di pregiudizi, perché fraintendiamo, perché abbiamo difficoltà ad esprimere noi stessi e perché abbiamo difficoltà ad ascoltare. Rimane un enorme lavoro da fare”.

Questo scioglilingua sulla transitorietà delle parole ci ricorda che è all'interno della relazione con la lingua e con il linguaggio dell'altro che è possibile fare un'esperienza strutturale di un incontro. A patto di mantenersi comodamente scomodi nella nostra ignoranza. Come Socrate.

Un incontro tra le parole dell'altro e le proprie, tra i significati che incontriamo fuori da noi e i significanti che abitano il nostro mondo interno, tra ciò che sappiamo e ciò che ignoriamo.

Proprio come nella costruzione di una storia, la gestione del linguaggio consente di intravedere qualcosa del significato più profondo che una storia narra.

In una fiaba, il linguaggio consente di veicolare la morale e la cultura del tempo.

In una notizia giornalistica, il linguaggio rimanda al senso che il potere editoriale intende trasmettere alla massa di lettori e implica la possibilità di immaginare un pensare divergente.

In una fiaba come in un notiziario, il reale della narrazione fa presa sull’immaginario.

Nelle storie di vita che abitiamo e che incontriamo, ritroviamo la magia delle parole, l’ingresso nell’universo dei significanti, l’immersione nel mare del simbolico.

Nella narrazione di una vita, il discorso che una persona costruisce da voce alla struttura che soggiace al parlante, costruendo una storia in divenire, in cui la persona torna ad essere soggetto della propria storia, oltre che esserne oggetto. 

Ci sono espressioni che siamo abituati a ripetere, e a sentire ripetute con l’inerzia di un mantra involontario. Espressioni come “… la mia vita è così da sempre, da quando mi capitò … sono sempre stato così …”  possono lasciare spazio a “…se tra 5 anni guardassi indietro, chissà chi sa cosa potrò essere stato oggi …”.

Questa dinamica interna alla grammatica del discorso individuale si ritrova nella dimensione sociale che alberga in ogni persona. Una dinamica che troviamo illustrata in maniera essenziale da Lacan nel dire come “ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire.” [3]

Non siamo destinati a essere ciò che siamo sempre stati, possiamo dare una prospettiva al passato, storicizzandolo e superando nell’esperienza quotidiana la specularità originaria in favore di un'iscrizione nel processo continuo di soggettivazione, un processo di perenne divenire.

Nessuno può pre-determinare il futuro, ciò che accadrà. Come a Icaro, non è dato il controllo e l’ascensione al sapere assoluto del sole. Possiamo scegliere il nostro destino, scegliendo come abitare ciò che la vita ci farà incontrare.

Scegliere il proprio destino indica un abitare il senso compiuto dello Zarathustra di Nietzsche “… al mondo vi è un'unica via che nessuno oltre te può fare. Dove porta? Non domandare, seguila … molti muoiono troppo tardi, e alcuni troppo presto. Ancora suona insolita questa dottrina: muori al momento giusto … diventa ciò che sei … trova un destino che tu possa amare …”[4].

Ognuno può addentrarsi nel proprio discorso, disvelarne la grammatica, e, mantenendo l’ordito delle proprie vicende storiche, disegnare nuove trame. Ogni persona, per il semplice fatto di essere, può disvelare una dinamica e una grammatica del discorso che illumini il ruolo, la posizione, il rango e il significato delle diverse parole che vengono utilizzate sia nella storia che si porta fuori da sé nelle relazioni, sia nella storia e nelle caratteristiche del narratore, ovvero del soggetto che le parla.

Si apre una domanda interessante. Come persone, prima ancora che come psicologi, siamo davvero pronti a incontrare la nostra ignoranza strutturale? 

Questa domanda può essere retorica per alcuni, ma spesso è un segno, un segnale di una dimensione immaginaria che fatica ad aprirsi al simbolico del mistero del divenire.

Penso che sia una domanda necessaria, che interroga ogni giorno, e che può essere individuale, al contempo tremendamente umana e professionale. 

Come interroga Recalcati “… di quale forma di vita testimonia l’analista nella sua vita? (…) Sa amare i suoi figli, la sua donna, il suo uomo, sa rinunciare davvero al potere o sa non disprezzare il potere senza goderne, sa vivere eroticamente il proprio corpo e quello degli altri, sa sopportare le avversità, sa riconoscere la propria vulnerabilità, sa chiedere aiuto, sa sopportare il reale dei legami, sa generare frutti…? Insomma, gli analisti, nelle loro vite, sanno testimoniare sufficientemente l’apertura infinita della vita, sanno amare il mare? ...” [5]

Oppure, come spesso accade di scoprire e ascoltare, rimane il bisogno di solidi paradigmi dell'io-io-io per incontrare l'altro, per rappresentarsi, per raccontare la storia della propria immagine?

Per poterlo fare, per destituirsi e abbandonare la faticosa dimensione dell’io-io-io, possiamo occuparci del rango, inteso come nella definizione di Arnold Mindell di “…capacità o potere conscio o inconscio, sociale o individuale, che deriva dalla cultura, dal riconoscimento da parte della comunità, dalla psicologia personale … che sia stato ereditato o creato da voi, il rango determina molti vostri comportamenti comunicativi, soprattutto in corrispondenza di un limite o di un punto scottante … il rango è una droga. Più ne avete e meno siete consapevoli dei suoi effetti negativi sugli altri … in fondo, la gerarchia è la struttura sociale della nostra cultura, e la nostra cultura sta dietro alla nostra inconsapevolezza…”[6].

Trovo che essere consapevoli del rango sia un modo piuttosto onesto per essere consapevoli dell’importanza fondamentale di non inquinare l’incontro con il già saputo, ma di lasciare spazio aperto al mistero di cosa possa accadere nell’incontro stesso.

Questa consapevolezza definirà la nostra posizione di fronte all’altro, il potersene prendere cura.

L’avere cura è un mestiere. Filosofi, genitori, medici, educatori, partner, insegnanti, psicologi ne sono da sempre interpreti. 

A mio avviso, ogni bipede ne è da sempre, consapevolmente o inconsapevolmente un interprete, dal momento che l’avere cura implica l’essere della cura.

Il prestarla implica un prestare la cura a sé stessi prima che a chi la riceve, in modo che ogni persona possa farsene qualcosa nel proprio modo singolare e personale, unico, irripetibile. 

La cura, per sua natura, si presta. Proprio come le parole.

 

più veloci di aquile i sogni
attraversano il mare (…)

sei un essere speciale 
ed io avrò cura di te”
 [7]

 

Parole che sono immagini, immagini che rimandano a parole. 

Parole di sogni, di vita, di voli di aquile, parole di mare. 

Da Amare. 

Parole della cura che sarà stata per ciò che saremo in divenire.

 

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ps: questo testo è la prima parte di un trittico che scrissi per Divergenze, ho voluto rivisitarlo e condividerlo a prescindere dalla sua pubblicazione.

[1] Platone, Apologia di Socrate

[3] J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, 1953

[4] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1885

[5] M. Recalcati, Il mare della formazione, 2019

[6] A. Mindell, Essere nel fuoco, conflitto e diversità come strumenti di trasformazione sociale, 1995, AnimaMundi ed.

[7] F. Battiato, La cura, 1996

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