i pensieri del dentro (5) - Riconoscersi allo specchio: tempo spazio esistenza

“… sono quasi stufa di ripetere il discorso della vittima…”
“… penso che potrei iniziare a smarcarmi da come mi sono sempre vista e potermi alla fine vedere per chi sono…”
“… sono stato vittima delle circostanze, per i lutti da bambino ho dovuto vivere una vita di dovere… ho sempre dovuto… ora vorrei scendere da quel piedistallo…”

Cosa accomuna queste tre frasi, diverse tra loro come le persone che le hanno pronunciate? L’adattarsi e l’incontrare un lascito fatto delle scorie che la vita ha offerto.
Come mi piace ripetere, la realtà ha un vizio sconveniente. Esiste.
Nella sua grammatica, la realtà, come la vita, si sviluppa nel suo variegato esistere, nelle mille sfaccettature di ciò che accade. E questi accadimenti rappresentano il verbo.
Un continuo susseguirsi, e rincorrersi, e intrecciarsi di fare a più, e di fare a meno.
Esistere, in fondo, è pur sempre un verbo.
Anche se a volte è un prendersi e uno scambiare per avere l’essere, e l’essere per l’avere.
Esistere è un essere in atto. 
Con tutte le possibili coloriture di atti. Sfumature di essere e sentire.
Se la realtà e la vita hanno una coloritura di esistenza, le persone che la attraversano ne sono oggetti, con un destino. Il destino individuale è la scelta tra l’esserne assoggettati (esserne oggetti) e tra esserne i soggetti.
E’ la vita che definisce chi siamo, e al contempo siamo noi a scegliere il nostro destino nella misura in cui decliniamo il nostro essere soggetti e oggetti di ciò che accade nella vita.
Abitare una coesistenza ciclica tra l’essere gli oggetti della grammatica della vita e del reale che incontriamo, e l’essere i soggetti del modo in cui ce ne facciamo qualcosa di ciò che nella vita ci accade.
Il modo di intendere, significare, abitare la vita e la realtà è qualcosa di unico e irripetibile, intimo e personale.
Il modo di stare di fronte al reale è ciò che la vita ci dispiega.
Questo modo di abitare la vita, la realtà della vita e la coloritura del reale che ne scaturisce individualmente è ciò che definisce la nostra etica esistenziale.
Come enunciato da Heisenberg nel 1927 nel suo principio di indeterminazione, non è possibile determinare in ogni istante la posizione e la quantità di moto di una particella.
Ogni essere umano è, a modo proprio e irripetibile, una particella che si muove e si trova in ciò che accade.
Da molti anni prima ci arriva questo frammento di Eraclito:
“il tempo è un bambino che gioca,
che muove le pedine,
di un bambino è il regno”.
Che il linguaggio sia quello della fisica quantistica, della filosofia greca antica, o della grammatica, la vita si di-spiega in quella che Platone chiamò la successione di “immagini mobili dell’eternità”. Un dispiegarsi che Aristotele definì come l’insieme delle “proprietà del movimento secondo il prima e il poi”.
Il gioco ciclico di Chronos (la quantità del tempo) e di Kairos (la qualità) è il gioco del bambino cantato da Eraclito, e che si ripete con l’indeterminatezza esplorata da Heisenberg.
Un gioco che è metafora di vita in cui l’alternanza dell’abitare la posizione di oggetto e di soggetto origina e disvela quel senso unico e irripetibile che ogni singola persona assegna al proprio vivere semplicemente vivendolo.
E ne definisce le coloriture dei movimenti e la posizione, la cui unione comunemente chiamiamo destino, con il suo portato implicito di impermanenza.
La transitorietà dell’esistenza è forse la chiave che lega le tre frasi iniziali. L’autorizzarsi di chi le ha pronunciate ha permesso il riprendere la tessitura della propria vita, rivitalizzandone la trama e l’ordito.
Parafrasando le parole della giovane collega Cecilia Terrenghi, non è già un “trascendere se’ stessi nascondendo le proprie fratture e nascondendosi nelle proprie faglie in una sorta di dissociazione dalle parti perturbanti, ma un abitare” ciò che di potente alberga in ognuno: il coraggio di trasformare le ferite in feritoie, di aprire varchi ed entrare in contatto con le parti più delicate e profonde di sé.
Ognuno è in potere di recuperare le parti dimenticate che consentono di ascoltare e dialogare con l’altro e con gli accadimenti della vita con la consapevolezza del proprio linguaggio, del proprio modo di significare l’esistenza e l’esistente.
Questo particolare atto di significazione ci vede pienamente inseriti nella ciclicità relazionale, nell’essere soggetti e insieme oggetti dell’esistenza.
E’ l’atto più complesso e più semplice di cui possiamo essere capaci: è nel potere di ognuno dare un significato e un destino alla vita invece che esserne significati e de-terminati.
Questo potere ci consente di ricominciare a giocare con i significanti che la vita ci propone.
E’ un permettersi e un meritarsi il frammento di Eraclito, un giocare con le parole per generare una narrazione che sia la trama del proprio divenire storico che poggia su un continuo tessere il nostro spazio nel tempo che incontriamo.
Un fare generativo, un generare e iniziare qualcosa che si possa sviluppare incontrando la coloritura di bellezza che abita singolarmente ogni persona.
Anche se a volte, e a volte per lungo tempo, non ce ne si sa fare alcunché. Poi, proprio come la realtà ha il vizio sconveniente di esistere, anche la bellezza del proprio bene può fare capolino, la bellezza di un unico e irripetibile bene-essere. Nonostante tutto ciò che nella vita possiamo avere incontrato. Nonostante tutto.
La bellezza e il bene-essere, nonostante. A volte è un’intuizione, un “insight”, all’improvviso.
A volte è un’apertura al mistero del vivere. Un mistero a cui bisogna autorizzarsi ad aprire, lasciando spazio a nuovi significanti, a nuove memorie, al nuovo in quanto non già conosciuto.
”Alcune cose sono belle per quel che sono. In quel preciso momento. Che durino minuti, ore, giorni o mesi, non importa. Non sono belle per quello che potrebbero diventare. Per il luogo da cui arrivano. Sono belle lì, in quel momento perché sono così. Sospese. Appena sfiorate”.
Le parole di Jorge Luis Borges ci narrano l’accadere, il permettersi di incontrare il proprio momento, la sua bellezza, la sua sospensione, il suo sfiorare la vita.
Vivere il momento e il tempo consente di tornare ad essere e percepirsi come soggetti storici della propria vita, abitata e attraversata secondo strade e trame imperscrutabili, imprevedibili, che si possono significare solo a ritroso.
Consentirsi di tornare a conoscere se’ stessi, ri-conoscendosi davanti allo specchio della propria trama, è un gesto che si può rinnovare ad ogni istante.
Perché accada occorre autorizzare il proprio individuale divenire storico, permettersi un passato che si fa futuro nel suo di-spiegarsi nel presente. Nel dono di vita che si può autorizzare.
Lì, in fondo, risiede il nostro potere più intimo, vero e profondo.
Un potere essenziale. 
Esistenziale.

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