I pensieri del dentro (4) - ogni uno e/è l’altro

Ogni luogo è un altrove in cui abitare. 

Ogni luogo sono volti, parole, corpi, emozioni, persone, da incontrare, ritrovare e da cui farsi abitare. 

Tornare a Genova è relativamente semplice, basta un treno, un’auto. 

I piedi o una bicicletta, al limite.

Tornare in alcuni luoghi di Genova è facile ma non banale.

Costruire un discorso a partire da ciò che significano quei luoghi, dal significato che hanno e dal loro essere un significante condiviso (con e divisivo insieme) è stato per molto tempo nel registro dell’impossibile.

Ma lo sappiamo bene. I compiti impossibili sono gli unici che meritano di essere affrontati.

Si fissa un punto di partenza, un’origine a cui si fa riferimento nel partire, e si va. Con trasparenza, coerenza, pulizia, etica.

Per evitare che l’etica scivoli nell’epica, come è capitato spesso in questi 20 anni, meglio chiarire da subito la questione dell’etica. 

L’etica dipende dal modo: il modo di abitare il reale, il pensiero, il discorso, il linguaggio attraverso cui ognuno costruisce un linguaggio rispetto a cui, come ci ricorda Giorgio Cavallari “o si sta dalla parte di ciò che fa profitto, o da quella di un godimento che si dissipa e si sottrae ai vettori della sua cumulazione”.

Etica.

Occupare una posizione di fronte al reale che sia eccentrica rispetto alle forme addomesticate della comprensione: anche davanti a molti, mantenere un punto di vista unico, irripetibile, particolare, il proprio.

C’è da sempre una ragione etica ed eccentrica per la mia difficoltà nel comprendere la frase “un altro mondo è possibile”.

“Un altro mondo è possibile” si scontra con la sua stessa logica interna che lo implica come affermazione fuorviante, o fuffa, come si dice a Genova.

La logica del discorso ci dice che solo “ciò che non è” è possibile. Se una cosa, un mondo esiste come altro, il suo essere altro è uno statuto etico di esistenza. Non certo una possibilità. 

La possibilità ha sempre a che spartire con il non essere.

Da qui parte la difficoltà a essere compreso in un discorso che non si può comprendere, dal momento che è dell’ordine della pura rappresentazione, e auto-rappresentazione. Come ci ricorda molto bene il portavoce delle tute bianche che a palazzo ducale dichiarò guerra ad uno stato senza essere in grado di pensare che uno stato, proprio per l’essere stato, non ha grandi aperture prospettiche sul simbolico. Senza la memoria storica di ricordare che la guerra la dichiara solitamente chi ne fa profitto, e la pagano gli innocenti. Che andrebbero invece sostenuti, nutriti e difesi. 

Esattamente ciò che ci racconta la storia, e non poteva che essere così: una volta fissato il punto di partenza, il discorso e il percorso si articola di conseguenza.

Per questo non andai a Genova i primi giorni. 

A Genova, allora come oggi, sarebbe bastato leggere cosa si stava sviluppando, ma non c’era spazio per ascoltare l’effetto di quelle parole, di quel discorso. C’era spazio solo per le immagini. Immagini iper-realistiche che hanno coperto ogni cosa. 

Per avere accesso e abitare un altro reale, serviva un accesso al simbolico, ma quello spazio non c’era, era stato eliminato, forcluso aggrappati alla retorica del possibile, di ciò che non è. 

Colpevolmente per alcuni, responsabilmente per altri.

Una volta sparito il simbolico, non rimase altro che il segno. 

Segno sulle ossa. Sulle teste. Nelle cicatrici di chi aveva seguito un segno bianco che poi abbandonò tutti al loro destino per dirigersi come fanno i furbetti che hanno sempre ragione ad occupare una posizione migliore.

I tanti, gli altri, furono destinati ad essere travolti dalla realtà di ciò che è stato.

Etica e logica.

Un altro mondo non è possibile: se è possibile, è perché non esiste se non, al limite, come astrazione, proiezione fantastica e fantasmatica.

Un altro mondo è. Esiste.

Esiste nella cura dell’altro, nell’incontro con ciò che è diverso, e proprio la radicale diversità evoca l’attesa, la protezione, la cura di tornare insieme a chi è partito, senza lasciare nulla e nessuno dietro di sé.

Per questo andai a Genova. Per sostenere, nutrire, aiutare, fare di tutto per non lasciare nessuno indietro, vicino o diverso che fosse.

La radicale diversità di cui ci parlava Baudrillard, quando scriveva che l’unica violenza rimasta è quella a livello del segno, come ha mostrato la storia, quella storica come quella più recente, quella individuale come quella giudiziaria.

Quando una vetrina rotta vale più di una vita, la dimensione umana e simbolica è già svanita in una nuvola di schizofrenia indiretta, in cui si conferma il pensiero che si vorrebbe condannare.

Bizzarrie. 

Una parte propone e abbatte i simboli dell’accumulazione per rimandare alle vite umane consumate nel processo, dall’altra le stesse istanze che la condannano sentenziano che una vetrina rotta in quanto simbolo abbattuto vale più di una vita umana. Se non implicasse una molteplicità di drammi e di vite rubate, si potrebbe sorridere amaro per una sclerotizzazione in cui ogni parte, ogni discorso rimanda ad un assoluto plus di verità.

Come abitare un proprio discorso nella tempesta è complicato forse perché terribilmente semplice.

È complicato e terribilmente semplice incontrare l’immaginario sostenendo il peso e la responsabilità del simbolico, nel reale.

La frase “un altro mondo è possibile”, condita da rappresentazione e teatralità si è schiantata sull’asfalto di Genova. Su ciò che è stato. Reale. 

Prima ancora che lo stato mettesse in atto quella che Amnesty International ha definito la più grande sospensione dei diritti democratici dalla fine della seconda guerra mondiale, è stato seppellito il desiderio in favore del protagonismo mediatico e della carrierucola di alcuni, scaricando il costo di vita su chi ha pagato per tutti. 

I discorsi parlavano ecumenicamente di colpa. Non di responsabilità.

Questioni di etica.

 

Un mondo altro esiste. Ed è il mondo dell’altro. Je suis l’autre. Io sono l’altro. E l’altro in me beve te. In un discorso che sogna, fallisce, ride. Come l’inconscio. Fa tutto ciò che è in suo potere per non lasciare nulla al caso, all’intentato. Nessuno indietro.

“Il fattore nuovo è la libertà di desiderare, non per il fatto di ispirare la rivoluzione - è sempre per un desiderio che si lotta e si muore - ma perché questa rivoluzione voglia che la sua lotta sia per la libertà del desiderio” (Lacan, Kant con Sade, 1963)

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