Esplorazioni. Pensieri del dentro (2). - dalla singolarità degli ingredienti al sapore dell'insieme attraverso il piacere del processo

(possiamo immaginare il mondo che verrà - ovvero pensieri sparsi e riflessioni nate nella vicinanza di qualche settimana di lavoro in remoto)

Come sa chi si cimenti nel piacere della cucina, in principio è un'immagine, un desiderio di ricetta, che già pre-senta il sapore che verrà. 
Un'immagine in principio. A cui segue la scelta degli ingredienti, dimensione sostanziale per poter lavorare ciò che si ha, miscelando, combinando e unendo materiali, gusti e profumi in un gioco di rimandi di dolce e salato. 
È un processo in cui lo stupore della mano che tratta gli ingredienti con rispetto è preambolo allo stupore dei sensi di chi li gusterà.
Cucinare è un processo generativo che si nutre della sapienza ereditata dalle ricette di chi ci ha preceduto in cucina, dell'etica nella scelta degli ingredienti, della maestria nel dosare i sapori, della creatività di cogliere profumi e abbinamenti nascosti, della praticità di utilizzare gli strumenti, della pulizia.
A volte, sento che il lavoro di cura si offra come metafora del cucinare. E vice versa.
Tra gli ingredienti di ogni incontro, il rispetto per le componenti che lo abitano è passo ineludibile, che muove dalla presenza mai scontata dell'umano, per aprire alla reciprocità del combinarsi come base di ogni processo relazionale, unendo ciò che può apparire contrario (come il dolce e il salato) con etica e coerenza.
Il sapere ereditato dalle generazioni precedenti si unisce all'individuale lessico che è per ognuno familiare. La scuola di cucina. La dottrina ereditata dal passato. Le ricette delle nonne. L'esperienza che si fa attraverso il fare.
Come in cucina, anche nella vita e nei gruppi, possiamo partire dagli assunti del sapere assoluto dei manuali e dalle ricette preconfezionate per garantire una mal celata illusione di controllo su quanto accada, oppure possiamo autorizzarci a condividere dei processi creativi con la curiosità di scoprire cosa accadrà.
Possiamo cucinare pensando al risultato atteso, oppure selezionare con etica gli ingredienti, vivere i sapori mentre si costruiscono tra le nostri mani, si manifestano nel nostro palato, ci vengono restituiti dalla reciprocità degli sguardi di chi li gusterà con noi.
Reciprocità. Etica. Coerenza. Elementi strutturali sostanziali intorno a cui costruire il rapporto con il reale che abitiamo, con l'altro, con l'umano e con l'umanità che si esprime nella dimensione della singolarità come nel semplice complesso incontro di gruppi di individui, in cui si sperimenta uno strutturarsi come collettività e comunità. Come nella costruzione di un piatto, scoprire come i sapori si incontrano, si tastano, si uniscono per generare nuove sfumature, nuovo gusto.
Forse come la cucina ha rappresentato uno spazio di agibilità umana in questi mesi di chiusura forzosa, così l'esperienza di nuovi modi di operare ha accesso la curiosità per la scoperta di nuove dimensioni del condividere. Da condividere.
Nella chiusura forzosa di questi mesi, la tecnologia ha permesso di aprire spazi che per me, e forse per altri, sono risultati nuovi ed inesplorati.
L'incontro di parola, in remoto e senza la dimensione concreta dello spazio in presenza, si è mostrato in alcuni suoi funzionamenti.
Senza la presunzione di individuare una ricetta, ma con la curiosità dell'esplorazione.
Il rivedere sullo schermo la dimensione del gruppo ha significato consentire ai partecipanti un vero e proprio “ritrovamento”, ovvero un momento prezioso in cui la proiezione di sé a partire dall'intimità del proprio ambito familiare (la casa, la cucina, la stanza, il balcone, lo studio) si ri-trova nella condivisione delle proiezioni degli altri partecipanti.
L'apparire sullo schermo non definisce un appiattimento dei contenuti, che vengono  liberati dalla dimensione immaginaria del rango inconsapevole che viene solitamente giocata nella dimensione concreta della presenza.
Come se la dimensione del ritrovarsi in gruppo comportasse un “quid” di auto-rappresentatività che pretende di essere mantenuta, come quell'aggiunta di sale o di spezie che rappresenta una presenza silenziosa e inconsapevole che forza ad aderire all'immagine ideale (di sé o della pietanza) che si vuole vedere riflessa nello specchio del rispecchiamento gruppale. In un cerchio, a tavola, sullo schermo.
È stata a volte un'epifania, altre una piacevole riscoperta il potersi autorizzare ad abbandonare la pretesa sicurezza, illusoria garanzia del rango, in favore del movimento di abbracciare la curiosità di sapere come sarà il risultato. Abbracciare versus abbandonare. Illusione di sicurezza versus curiosità di ciò che sarà.
Nella dimensione dell'incontro a distanza, la particolarità del ritrovamento per i partecipanti è l'intrinseca e implicita possibilità di rappresentarsi e di presentificarsi con la consapevolezza, più o meno compiuta ed espressa, che tutti gli altri partecipanti siano nella medesima posizione. Nessun ingrediente è migliore o peggiore degli altri, e tutti indifferentemente possono concorrere a creare un grande piatto, o a rovinarlo.
Essere una parte di un insieme che si vede rappresentato in proiezione nella sua dimensione collettiva. Dall'orto al banco del mercato, dalla cucina alla tavola. Parimenti, dall'individuo al collettivo in un click, in un battito di ciglia. Forse per questo la dimensione sociale risalta visibile, nel suo risultare attraverso la trasparenza dell'apparire delle singolarità che si allineano sullo schermo, dei piatti che imbandiscono la tavola.
Stesse attenzioni, medesima cura.
Lasciando per ora la dimensione culinaria per tornare all'esperienza della cura, non penso ci sia nessun bisogno di preoccuparsi dell'emergere della dimensione sociale nel lavoro dei gruppi, dato che ogni gruppo ne è portatore nella particolare dimensione che gli è propria, e che definisce la sua unicità. 
La dimensione sociale è per così dire implicita nell'incontro delle individualità, che già singolarmente ne sono intrinseche portatrici. Non c'è nulla da disvelare, nessuno sforzo da fare, se non quello di lasciare che appaia la meraviglia dei discorsi che si dispiegano davanti a noi, ci abitano, ci contagiano, ci lavorano dentro prima di essere restituiti con un più di singolarità che viene riassorbito nel gruppo.
Ogni ingrediente ha un suo sapore, e la magia che li combina è in realtà l'arte di farli incontrare senza snaturarne le peculiarità, ma generando il nuovo.
Analogamente, il singolo individuo è ingrediente di un insieme che va trattato con tecnica, sapienza ed arte: anche la dimensione del gruppo tradisce la prospettiva dell'osservazione. 
Come scriveva Einstein, c'è un rapporto di equivalenza tra la complessità e la semplicità. 
Un discorso biunivoco, un legame di corrispondenza che intercorre tra queste due dimensioni in cui a ogni grandezza dell'insieme complessità corrisponde una e una sola grandezza dell'insieme semplicità, e viceversa.
Per questo prediligo, sempre parafrasando Einstein, una posizione che consenta di accogliere la complessità che viene portata nel modo più semplice che ho trovato: la semplicità di sospendere la dimensione soggettiva per fare entrare il discorso dell'altro.
Una diversa posizione è per me non troppo comoda, per usare un eufemismo. 
Il cercare di fare emergere qualcosa che già c'è (la dimensione umana e sociale del singolo come del gruppo), mi suona come un'urgenza della conduzione, con il rischio di operare per proiezione di quello che è proprio del conduttore, in una formula che da clinici conosciamo bene. 
Negazione della scomodità (disarmonia e incongruenza) di aspetti della propria incarnazione, proiezione sull'altro, spostamento sulla preoccupazione e sull'urgenza di farlo emergere nell'altro. Sarebbe un movimento che cerca di farne emergenza dal proprio interno all'esterno altrui. 
Come a dire: siccome questi sapori piacciono e mi hanno insegnato a cucinare così, mangiate quello che c'è nel piatto.
Operazione sostanzialmente basilare ed arcaica, e forse per questo purtroppo popolare.
Invece di preoccuparsi di fare emergenza di ciò che già c'è, penso sia più semplice ed opportuno occuparsi di stare insieme davanti al reale che circola, che abita lo spazio dell'incontro, e farsene abitare.
Occuparsene, invece di preoccuparsene. 
Liberare la parola e farsene abitare, dando il permesso di apparire al sociale che si incarna sempre nell'essere dell'altro con cui ci si relaziona. Questo movimento facilita l'operazione del ritrovamento, che è un riapparire sullo schermo, minutamente e con diligenza. 
L'incontro dei sapori e di come vengono percepiti, gustati, desiderati.
Non solo un ascoltare qualcosa, ma un ascoltare attraverso qualcosa.
Una riscoperta di sapori nel rivedersi del familiare oltre la proiezione, nell’apertura al mistero disvelato della curiosità che sola permette di incontrare il gusto. A tavola, come in un incontro di gruppo.
Gli incontri sono sempre intensi, regalano sorpresa, dolore, stupore, fatica, gusto. Si riscopre il gusto della fatica. Si riscopre l'unicità. Condivisione intensa, generosa e profonda sui modi di cercare i sapori, di combinarli, di stare nella cura, portando la propria unicità di fronte all'unicità dell'altro.
Cura come vita, come metafora, come caramelle da condividere.
Pensiamo di trovarci davanti a un sacchetto di caramelle. Le guardiamo, hanno forme e colori che le distinguono le une dalle altre. Già a prima vista, alcune attraggono maggiormente la nostra attenzione di altre.
La superficie che si vede e si tocca è il metro su cui scegliamo una caramella piuttosto che un'altra. Per il nome, il gusto, il colore, l'esteriorità, la confezione nel suo complesso.
Sappiamo che alcune caramelle contengono un messaggio che apparirà solo dopo aver scartato l’involucro. Il messaggio che contengono è una frase per chi le avrà gustate. Come nelle caramelle e nei biscotti del destino. Sotto la superficie colorata esterna, c'è un secondo velo, invisibile dall'esterno, che a sua volta avvolge e contiene il vero oggetto della nostra scelta, ovvero la caramella che sarà presto assaporata.
Possiamo provare a pensarci con le caramelle a disposizione. Immaginare di avere tra le mani una caramella di quelle che contengono un messaggio. Scartare l'involucro esterno, colorato. Scartare il bigliettino. Lentamente ripercorrere il tragitto che dalle dita della mano conduce la caramella alla bocca. Gustarne il sapore. E quindi aprire il biglietto e leggere il messaggio.
Una piccola emozione nascosta.« Non è la domanda dell’altro che definisce chi sei. È ciò che sei che determina come stai di fronte alla domanda dell’altro. Al mistero di fronte al reale della relazione.»
Non resta che lavarsi le mani, augurandosi che l’appetito sia buono. Buon appetito e buon tutto.

a seguire: “Pensieri del dentro (3). (possiamo immaginare il mondo che verrà - ovvero pensieri sparsi e riflessioni nate nella vicinanza delle settimane di lavoro in remoto)”


Paolo Brusa – maggio 2020

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