Esplorazioni - Pensieri del dentro (1).

(possiamo immaginare il reale del mondo che verrà - ovvero pensieri sparsi e riflessioni nate nella vicinanza di settimane di lavoro in remoto).

Il lavoro in remoto di questi mesi materializza e presentifica una dimensione particolare del vivere. Il reale.
Al di la delle narrazioni che se ne possono fare, la pandemia ha creato un mondo di limitazioni e di vulnerabilità che tutte/i condividiamo, avvicinando le componenti immaginarie e simboliche al piano reale. 
Emerge una questione interessante, una domanda semplice nella sua apparente complessità. 
Cosa è il reale? Ciò che è.
Come dirlo diversamente mantenendone la semplice complessità?
Qualche giorno fa, lavorando con una persona, ci siamo soffermati sulla tazza che tengo in studio vicino alla poltrona. Il reale di quella tazza non è la sua materialità, ma è ciò che attraverso la sua esistenza accompagna il desiderare di bere. Potrei non avere sete, oppure si, e la tazza potrà essere colma, oppure no. In ogni caso, il reale sarà il modo in cui il desiderio di bere incontrerà la possibilità della tazza di contenere ciò che mi disseta e cosa me ne farò.
Come recita poeticamente Master Oogway nel cartone animato Kung Fu Panda:
«…guarda quest'albero, non posso farlo fiorire quando mi aggrada, né farlo fruttificare prima del tempo. Qualunque cosa tu faccia, quel seme crescerà e diventerà un pesco, magari tu desideri un melo o un arancio, ma otterrai un pesco … ».
Il reale è differenza, lo scarto che Shifu abita (che ognuno abita) tra il pesco e il desiderio di un melo o di un arancio, definendo il rapporto unico e irripetibile di quel momento. È un quid che semplicemente scaturisce dall'essere soggetti di fronte a qualcosa di reale. È un emozione. È differenza, unicità, particolarità.
È uno spazio logico esistenziale. Come insegna magistralmente Master Oogway, la questione vera è come si abita questo spazio, come si sta davanti al pesco, a prescindere e a partire dal desiderio di un melo o di un arancio.
Uno degli effetti collaterali della pandemia è l'apertura di spazi che trasformano, per certi versi, la dimensione quotidiana in un continuo analitico in cui entra in gioco un discorso di reciprocità nel quale ognuno è solo con il proprio modo di abitare quello spazio insaturo che si instaura di fronte al reale.
Master Oogway, Shifu e il pesco. Io, la persona con cui lavoro, e la tazza. Io, l'altro e il reale. Il reale e la reciprocità dell'incontro con l'altro. Una corrispondenza proiettiva e biunivoca tra i punti di uno spazio proiettivo individuale e gli iper-piani che si giocano con l'incontro dello stesso spazio proiettivo (o di altro spazio) della stessa dimensione reale.
Può apparire complicato. D'altronde, dato che solo ciò che non è, può apparire, parimenti il semplice può apparire complicato.
Per tornare su un terreno di semplicità, su suggerimento di una preziosa collega, prendo a prestito le parole dell'analista americana Nancy McWilliams « … la cosa più difficile con la quale confrontarmi psicologicamente, è il fatto che la paura del corona-virus non è ansia nevrotica … l’angoscia rispetto ai suoi danni non è depressione nevrotica… sono testimone di una paura reale … per paure realistiche, misure autoprotettive realistiche sono la migliore “terapia” … »
Possiamo dare parola al reale che stiamo vivendo. Possiamo rappresentare il caos generale e la confusione che attraverso la reciprocità genera incontri di parola. In questo senso, esattamente come negli incontri individuali o di gruppo in remoto, la quotidianità ci confronta con le paure, la solitudine, la vulnerabilità e la mortalità, il ritrovamento del senso della vita nella riscoperta dell'esistenza del limite. 
La pandemia ha aperto il contenuto dei vasi di Pandora, in cui il reale si è spostato dall'essere caratteristica della proiezione emotiva del singolo, per tornare ad essere dimensione della realtà che si abita. In questo movimento, ognuno si trova a convivere, consapevole o meno, con il proprio esistere come scarto dal reale. Come differenza, come unicità, come particolarità. 
Prendendo ancora a prestito le parole della McWilliams, «… posso aiutare i pazienti quando le loro reali paure e perdite vengono complicate dalle loro idiosincrasie e vulnerabilità, ma non posso ridurre una sofferenza emotiva che è fondata sulla realtà …». 
Possiamo però proporre e rilanciare spazi di condivisione delle parole, aprire alla generatività dei discorsi, che si possono dispiegare (e per certi versi anche spiegare e piegare) proprio a partire dall'essere stati riportati di fronte al reale, davanti al quale si appare in trasparenza per il proprio esistere come scarto e differenza, come unicità e particolarità. 
Il terreno dell'incontro diventa un campo in cui condividere l'umano, operando con generosità e generatività. 
Condividere le parole che si incontrano come prestito, dono e scambio. 
Farle sedimentare. 
Lasciarle lavorare dentro. 
Permettersi di rinnovare il prestito, il dono e lo scambio, restituendole in una forma diversa, frutto del misterioso loro lavorare dentro. 
Nella trasparenza implicita del mezzo tecnico dell'incontro a distanza, ho presenziato al dispiegarsi dei diversi piani da cui il discorso di ogni persona è abitato, e che si sono manifestati nella stratificazione dei partecipanti a diversi gruppi online. È stato un onore l'ascoltare come i discorsi dei partecipanti abbiano voce e parola al loro singolare essere portatori di unicità e al contempo di dimensione sociale. 
Ho scelto, in coerenza ed etica, di sedimentare i diversi contributi, lasciandomi abitare dalla meraviglia generativa della parola che ha compiuto il suo percorso originando nuove riflessioni, pensieri, discorsi. 
Accompagnare la generatività dei discorsi è per me prima di tutto operazione di poesia. 
Prima sentiti nella dimensione del fuori, nello spazio dell'incontro in remoto, e poi ascoltati nel loro passare allo spazio dentro, diventando discorsi interni. Sempre, profondamente, emozionali. Ed emozionanti. 
La condivisione di questi discorsi, che ho articolato in una serie di contributi che porterò su questi spazi, è ulteriore momento di ascolto e di costruzione generativa interna. 
Aprirli umilmente allo spazio insaturo di chi li leggerà, è per me un modo per rinnovare la meraviglia dello scambio e del dono. È un esercizio di poesia creativa. Un di più di vita. 
È un restituire aria e ossigeno ad un percorrere internamente che torna ad aprire le proprie ali nello spazio esterno, nel fuori. Accompagnare il processo che da parola alle emozioni è un accompagnare la generatività del discorso. 
Come scriveva Irvin Yalom nel suo libro “La cura Schopenhauer” del 2005, «… il lavoro del gruppo consiste in due fasi: prima l'interazione, spesso emotiva, poi la comprensione dell'interazione…una sequenza alternata di evocazione di emozioni seguite dalla comprensione …» 
Un percorso poetico. 
Dalla chiusura nei propri luoghi familiari, al dischiudersi del mondo interno dei partecipanti. Reali che si materializzano, presentificandosi sullo schermo, nelle parole, negli ascolti. 
Tutti chiusi in un mondo da esplorare. Dentro. Un dentro in cui entra ciò che ci circonda, e dentro riverbera. 
Generando a cascata altre emozioni. Emozioni a cascata. Vertiginosa. Rinfrescante nel suo suono rimbombante e possente. Fare esperienza dell'incontro con l'insopportabile. Rabbia. Ansia. Paura. 
L'esperienza della paura attiva movimenti emotivi notevoli. Ritornano considerazioni colme di commovente saggezza, di come sarebbe folle non ascoltare la paura. Se non la si conosce e ri-conosce, la paura domina incontrastata, e si trasforma in panico. Occorre fare un passo indietro per poterla gestire. Come recita un vecchio adagio, per aprire le porte che fanno entrare aria fresca, a volte occorre fare un umile passo indietro. 
Ascoltare le parole, gli insegnamenti del tempo. Le arti marziali insegnano a permettersi di riconoscere la paura come punto di debolezza, per ascoltare la paura della debolezza, primo passo per accettarla, farsene qualcosa. Nel senso di usarla come fulcro. La forza si moltiplica a partire dalla consapevolezza della parte che sentiamo debole. Proprio perché non è necessaria la forza per dominare la paura, se non c'è nulla da dominare.
Non è una questione di dominio.
È un fare quel che si può. 
Tanto, alla fine, quello che facciamo è tutto quello che possiamo fare.
In questo nuovo “reale” che si abita in una dimensione quotidiana, c'è anche spazio per un modo riscoperto di prendersi cura di sé, con l'onestà di vedere se ci riusciamo o se abitiamo solo l'ideale e l'illusione di farlo.
A volte la parola e la vista offuscano gli altri sensi. Ciò che si dice (la narrazione) e ciò che si vede (l'estetica) ottundono e obliterano. Creano miraggi. Illusioni che appaiono. Illusioni dell'apparire e dell'apparenza. Ma c'è un più di umanità da recuperare, a cui appartenere. Un che di arcaico, antico, al contempo sensuale e selvatico, istintivo. Le emozioni hanno un odore, oltre che un sapore.
Come scriveva Pontalis, possiamo recuperare la confidenza con “...l'infans che, non disponendo di un linguaggio, fa delle proprie percezioni un linguaggio, un mondo di segni”. 
Far parlare ciò che di solito tace.
Le emozioni ci fanno puzzare, e la nostra parte infans lo sente. Vivere le emozioni, e poterle sentire.
Dare parola alle emozioni permette anche di svelare per quello che sono. E a volte, anche per quello che non sono.
Paura. La questione è se si senta la paura, o altro. Un senso altro, che appartiene ad altri e che la cultura familiare e collettiva incolla alle persone. Un altro senso, quello di colpa. Culturalmente acquisito, anche se la questione è individuale. Come potrebbe essere altrimenti.
Paura di cosa? Di ciò che si sa. Nella dimensione del sapere saputo. Ora è quotidiano. Contagio. Morte. Vulnerabilità. Debolezza. Limite. Imprescindibile. Solitudine. Scoprire solitudine. 
E poi? 
La dimensione “e poi?” è dimensione del tempo, che in un periodo complicato, ma anche semplice, dimentica l'imponderabilità del tempo, l'illusione del controllo, e declina anch'esso sul crinale della paura. Paura del dopo.
Ingresso pervasivo dell'angoscia della normalità, del “dopo”. Si sente il bisogno di ritrovare una centratura con le parti sostanziali di sé. Di ri-allinearsi. Dentro. A fronte della bulimia mediatica sul ciò che sarà diverso, sul prima, il dopo e il poi, operare atti di disobbiedenza civile e riprendersi il tempo lento. 
Il tempo che si prende il tempo di gustare le cose della vita. Come riscoprire che il riposo è parte sostanziale dell'attività. Se non ci fosse, le energie del fare durerebbero meno. Prendersi altri lussi, imparare a bastarsi. E dirsi grazie. 
Non come smargiassata di onnipotente narcisismo, ma come complimento autorizzato dal bastarsi. Dal meritare di bastarsi. 
Essere bravi a fare il giusto. Come sempre. Anche quando si sbaglia. 
Abbandonare invece di abbandonarsi alla dimensione del controllo e della coercizione che viene barattata con la sicurezza e la libertà. 
Riprendersi la dimensione umana e sociale di essere comunità. Ribellarsi in piccoli atti quotidiani. 
Riconoscere nella storia le ripetizioni che hanno fatto Storia. Rileggere cosa accade quando il collettivo non sa prendersi cura dell'individuale, cosa implichi l'accollare all'individuo la cura del collettivo. Implica che, semplicemente, non funzionerà, non potrà funzionare. La storia riporta con noiosa ripetizione la trama della colpa. Della caccia all'untore. Solitamente finisce con un'istituzione che scarica tutto sul buon senso del debole. 
Ribellarsi. Se non ci si ribella, si scompare. Farsi contagiare dalle parole della follia, che dispensa buon umore. E tanti possibili esistenziali da abitare. 
Ritornare a vivere la comunità come spazio di respiro. Di buon umore. Di buon senso. Buon tutto. 
Ritornare a vivere il dentro con la capacità di stare nel limite. Esercizio difficoltoso, a cui non si è troppo abituati, presi dalla dittatura della performance. Togliersi il peso del non necessario. Ringraziare e ringraziarsi. Essere orgogliosi dello stare in gruppo, dell'appartenere ad una comunità a partire dalla condivisione dei propri limiti individuali, dalle proprie fragilità. 
Abitare lo spazio interno. Fare ciò che si può con quel che si ha. Con quel che si è. 
Dare dignità e rispetto per i tempi interni di ognuno. Possibilità di armonizzarsi tra i tempi interni. Stare nella sospensione. Abitare l'invisibilità, recuperando la dignità di chi è stato escluso, considerato un'altro a meno, uno scarto della normalità. L'altro di cui fare a meno. Lo scarto dall'economia della normalità, dall'economia onnipotente del narcisismo. 
Abitare lo scarto. La differenza tra l'ideale e il reale. Accogliere questa mancanza. Senza doverla in qualche modo riempire. Ribellarsi all'ansia di dover riempire. Al debito da colmare quando non c'è nulla di colmabile. 
Permettersi di piangere le lacrime per il nulla di incolmabile che ci rappresenta. Che è stato imposto come rappresentazione. 
Resistere alla falsificazione della distanza. Vivere nella parola di questo scarto, riscoprendo la poesia e la bellezza delle vicinanza, di corpi ed emozioni che vi si generano. Custodire la mancanza come una ferita che assomiglia a una poesia, triste o allegra che sia. Riscoprire la responsabilità della parola del parlante. 
Tornare all'essenziale. Bastarsi. Accontentarsi di quello che si fa e di quello che si è. 
Trasparenza. Nella visione in trasparenza, non c'è più alcuna necessità d indossare alibi e ranghi sociali, e le persone possono riappropriarsi del potere di essere semplicemente ciò che sono. Nel silenzio. 
Silenzio. Mancanza del contatto fisico. Della fisicità dell'incontro con l'altro. Mancanza dei rapporti e delle relazioni concrete. Della concretezza delle relazioni. 
Responsabilità di essere un riferimento per le persone di cui si cura. A partire da se. Da dentro di se. Prendersene cura. In un momento distopico che accelera il processo di cambiamento. Un modo diverso di stare. 
Diverso dal tempo prima. Prima la priorità era fare. Fare cose. Prestazioni. Diverso il tempo ora. Ora la priorità è stare bene. Stare. Ora. Bene. 
Concedersi. Dedicarsi. Rallentare. Tempo lento. Tempo vuoto, incredibilmente pieno. Riscoprire la forza e la potenza del debole, dell'escluso, dello scarto. Riscoprire i volti. Riscoprire i colori. La vitalità dei colori. Commuoversi. Ognuno è portatore di qualcosa di cui tenere conto. Caos calmo. Un modo di affidarsi all'individuale dell'altro. Essendo testimoni di ciò che si è dentro come persona, stando davanti all'altro. Ricevendone l'uguale. Ricevendo reciprocità. Donando la reciprocità di cui si è capaci. 
Stare bene. Stare bene perché si hanno relazioni umane nel dentro della relazione. Con lentezza. Che emerge. L'emersione dell'umano e della lentezza nella relazione concreta con l'altro. Questa emersione è un nuovo significato che possiamo dare all'emergenza. 
Significare l'emergenza come ciò che viene a galla. Un più di vita, di umanità. Individualmente collettiva. Collettivamente individuale. Invisibile. 
Ogni tanto meritarsi di risaltare. 
Per tutti. Per ognuno. 
Liberare i desideri nella luce e nel profumo, riabbracciare bellezza e poesia nascosti. Vivere la reciprocità di emozioni, sguardi, gesti, contatti. Con tatto. Ri-appropriarsi di un più di vita in un tempo a-meno. 

→ a seguire: “Pensieri del dentro (2). (possiamo immaginare il mondo che verrà - ovvero pensieri sparsi e riflessioni nate nella vicinanza di qualche settimana di lavoro in remoto)” 

Paolo Brusa – Aprile 2020

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