Il tempo scorre alla finestra del reale.

Il tempo che viviamo, e le cose che accadono nel tempo che viviamo, possono apparire diverse da come si vorrebbe che fossero.
Un po’ meno reali, a volte. Altre volte, molto più che reali. Iper-reali.
La dimensione iper-mediatica che molti sperimentano in questi giorni di isolamento forzoso in sostituzione del contatto relazionale diretto, ha fatto saltare molti dei piani con cui solitamente leggiamo lo stare di fronte al reale.
Viene da chiedersi cosa sia questo reale. Come ci si possa stare di fronte.
Porsi queste domande significa porre in questione la nostra posizione in un mondo che, forzatamente confinato nell'isolamento, utilizza la dimensione virtuale come rappresentazione della maggioranza dei contatti sociali realizzabili.
Fino a poco tempo fa, e per alcuni significa pochi mesi, settimane o pochi giorni, questo discorso aveva a che fare con i social, con quel mondo realmente virtuale che per alcuni (spesso gli stessi della riga precedente) era il mondo in cui vivere appieno quella dimensione che Lewis Carroll1 definì con “essere ciò che si sembra”.
Abitiamo ormai da tempo un mondo “social” e virtuale, in cui, quando un contenuto circola, diventa virale. Espressione consueta, che era solita denotare il successo, la contaminazione di molti con un’immagine proiettata di sé, proposta e rilanciata secondo algoritmi che rendono iper- la rappresentazione.
Baudrillard scriveva come «con la modernità non smettiamo di accumulare, di aggiungere, di rilanciare, abbiamo disimparato che è la sottrazione a dare la forza, che dall’assenza nasce la potenza. E per il fatto di non essere più capaci di affrontare la padronanza simbolica dell’assenza, oggi siamo immersi nell’illusione inversa, quella, disincantata, della proliferazione degli schermi e delle immagini»2.
Il tempo che abitiamo scorre come un fiume in cui si specchiano le immagini di questa iper-realtà, confondendo a volte cosa sia immagine, cosa sia riflesso. Perfetto luogo di coltura per il narcisismo.
Nel nostro mondo ci si è adagiati su una dimensione pervasiva dei social, ulteriormente acuita dal forzato e forzoso isolamento imposto da un virus che è invece concretamente virale.
Non avendo un altro reale davanti a noi, l’isolamento rischia di spostare avanti l’illusione che l’iper-rappresentazione della realtà riprodotta sia un’affermazione del reale. Una iper-realizzazione di sé e della propria realtà.
Essendo l’ipertrofia dell’io un sintomo del perpetuarsi di un'immagine idealizzata e onnipotente all’eccesso, percepita come il vero “Io”, ci sarebbe già di che essere perplessi nel comprendere come l'ipertrofia della rappresentazione a volte si sostenga sul poco, o sul niente.
Mi viene in mente un altro passaggio di Lewis Carroll, da Alice nel paese delle meraviglie. Mi pare fosse un dialogo tra Alice e il cappellaio matto: 
«Prendi più tea. »
«Non ne ho ancora preso niente, non posso prenderne di più.»
«Vuoi dire che non puoi prenderne di meno. È facile prendere più di niente.»
Come mi disse una persona qualche tempo fa, stare davanti al reale è un gioco complicato, un’esperienza in cui si scopre tutta la possente fragilità di essere l’altro di fronte all’altro. Essere l’altro dell’altro. La complicata esperienza di poter esistere come il soggetto che è oggetto dello sguardo dell’altro, altro che è allo stesso tempo anche l’oggetto dello sguardo dei nostri occhi, in una prospettiva che consente il rispecchiamento in cui si è alternativamente e contemporaneamente fonte e riflesso, soggetto e oggetto
C’è circolarità in questa immagine dello scorrere degli sguardi. C'è tutto il senso del reciproco, di ciò che letteralmente “va e viene, fluisce e rifluisce, sta indietro (recus) e innanzi (procus)”.
Il punto è che mentre il mondo sociale prevede la possibilità della reciprocità e della circolarità, il mondo social si compone di una serie potenzialmente illimitata di movimenti unidirezionali, da un soggetto a tutti i fruitori, gli altri indifferenziati. 
Ciò che le persone fanno sui media, i media fanno sulle persone. Come ci insegna la fisica, è una regola base della reciprocità, con buon pace di McLuhan.
In questo gioco relazionale, la domanda è cosa si prenda, cosa si dia, cosa si scambi. 
Prendere, dare, scambiare, tre magnifici verbi. 
Prendere è originariamente un ridurre in potere, in cui il significato è legato alla varietà delle parole a cui si accompagna, è un togliere, un ghermire, un occupare.
Dare è un trasferire all'altro e nell’altro, che con la qualità accessoria della spontaneità comprende anche l’assegnare, l’attribuire, il concedere.
Scambiare è un permutare, un far comparire in una forma diversa nel regno dell’altro ciò che è di uno, implicando un significare le cose a ritroso. Il significato dello scambio viene certificato da chi riceve, non solo da chi da. Di nuovo, circolarità.
La domanda è: come si incontrano questi discorsi apparentemente divergenti?
Nel mondo economico che viviamo si è passati dalla dimensione della produzione e dello scambio, alla pretesa che ci sia una forma di rispecchiamento possibile nel congelare una parte nel dare e una parte nel prendere. L’illusione che ci possa essere circolarità in una dinamica fatta di sequenze di movimenti unidirezionali. Specificamente, in un prendere da altri che danno. Altri che, più o meno spontaneamente, danno. Passare dal verbo al sostantivo. Il danno (sostantivo) non è propriamente un dare, ma un'onta per qualcosa che viene tolto ad altri.
Nella rappresentazione social in cui si è forzatamente confinati, questi altri sono una somma indifferenziata, non più somma di singolarità, ma rappresentazione comune di una massa indistinta. Se nella dimensione sociale l’altro è sempre l'altro reale dello scambio simbolico, nella massa social l’altro è un segno grafico, in cui la valenza si sposta dalla singolarità al numero complessivo che rende “virale” il contenuto.
Venendo meno la possibilità di vederlo materialmente, salta la dimensione del rapporto, dell’incontro e dello scontro, e entra in campo l’angoscia pervasiva davanti al nulla che avanza. Facendo saltare tutto. De-materializzando le vite, riporta in maniera iper-trofica le domande sul senso del vivere, con tutto quello che nel vivere si compone, ossia gioia, dolore, godimento, sofferenza, serenità, morte.
Drammatica ironia del periodo concretamente virale, in cui anche il dramma delle morti viene tradotto dai media in una statistica indistinta.
La qualità implicita dell’ “indistinto” in quanto tale è di non essere percepibile come umanità, ma come una cosa, un nulla che se non è in rapporto diretto può scivolare nella non-esistenza, negando la molteplicità del giocarsi del piano simbolico, della rappresentazione e di quello reale.
Negare queste componenti è un esercizio spinto di negazionismo, di colonialismo esistenziale. Un movimento che azzera la dialettica dell’incontro con l’altro.
Senza permettersi di abitare l’unicità dell’incontro, l’unica realtà che rimane da abitare è necessariamente auto-riferita, auto-centrata. Non è più un perturbante, per dirla come Freud, ma un turbamento. Un turbamento che diventa anch’esso iper-turbato, e virale, che si è materializzato, anche se continua a non potersi vedere. 
Il suo statuto non è più quello del successo iper-trofico della realtà virtuale e social. Questa volta è qualcosa che agisce sul sociale, direttamente e profondamente. Ora è reale. Ciò che si da, prima o poi torna. Il processo è ciclico. 
Accade così che la scelta di costruire un mondo de-localizzato e globalizzato ci faccia scoprire di essere in realtà clamorosamente fragili strutturalmente, in particolare modo proprio di fronte al ritorno della delocalizzazione e del globale. Un virus non ne è solo una drammatica metafora, ma una traduzione concreta e reale. Un virus che circola ha una sua rilevanza sanitaria, come è evidente che sia. Ciò che appare iper-trofica e iperbolica è la disciplina con cui viene narrata in una dimensione iper-amplificata, che copre una doverosa attenzione e profilassi sanitaria con i toni dell’apocalisse, rendendo anche il panico un bene primario di consumo.
Da qui gli assalti ai supermercati, così diversi dagli assalti ai forni e ai mulini dei moti manzoniani e delle più recenti rivolte del pane del 1898 e delle primavere arabe del 2011. O le offerte di solidarietà digitale che mestamente sono solidarietà a scadenza, di qualche settimana, in attesa che si cambino gestori e si acquisiscano nuovi clienti.
Similmente, le lodi doverose e meritate al personale sanitario (uomini e donne meravigliosi che, per fronteggiare un’emergenza annunciata, si stanno prodigando rischiando una vita mai tutelata dall'istituzione che rappresentano), vengono portate dalla medesima classe dirigente che ha eroso negli anni la sanità pubblica, riducendo posti letto, risorse e personale3, e che oggi non è in grado di tutelarli.
Si iper-amplifica il dramma, spostando la responsabilità4 delle scelte di indirizzo e di gestione collettiva sulla dimensione individuale. 
Come se il buon senso di fare una passeggiata in un bosco o di sedersi su una panchina per un anziano solo sia enormemente più pericolosa del non fornire al personale sanitario le protezioni necessarie per poter curare i malati senza il rischio di infettarsi, di diffondere il contagio, di morirne.
Come spesso accade, la portata della paura della malattia, e in profonda istanza, della sofferenza e della morte, viene trasformata per eccesso moltiplicativo dall’effetto massa in angoscia, in quel meccanismo per cui dato che il potenziale limite è ovunque, ed è parimenti intangibile, è da tutte le parti e da nessuna parte. 
In questo, ricordare il valore delle parole diviene un esercizio di resistenza alla deriva virale, per aiutare e aiutarci a radicarci nel reale della vita.
C'è una sostanziale differenza tra una pandemia e una guerra; tra il riconoscersi cittadini, o soldati; tra l'essere consapevoli, o l'essere sudditi obbedienti; tra l'essere solidali con l'umano, o l'essere patriottici; tra l'essere responsabili, o isterizzare le restrizioni alle libertà individuali. Anche questo semplice esercizio diventa un argine alla diffusione del virale.
Ulteriore immagine di come un virus sia la rappresentazione perfettamente e drammaticamente calzante di una fuori-uscita dal reale. Senza oggetto ci si perde, assorbiti da quel nulla vorace, il niente che avanza della storia infinita, rispetto al quale tanti si agitano e corrono alla ricerca di un qualcosa che fatica a sostenersi, nel chiuso delle loro stanze, dei loro contatti social, tutti compressi e compresi dalla dimensione di domiciliarità. Un mondo vissuto alla finestra.
Ma allora, la domanda che le persone con cui lavoro a volte si pongono diventa calzante. Come si può stare in tutto questo?
Qualche pomeriggio fa, ero seduto in studio. Come da indicazioni di buon senso prima ancora che di autorità, avevo aperto la finestra tra un appuntamento e l'altro con le persone con cui lavoravo. Era un meraviglioso pomeriggio di fine inverno, con la primavera che disegnava i suoi primi colori.
Come in una libera associazione, ho rivolto lo sguardo alla libreria e mi è caduto l'occhio su ”Finestre”5 di Jean Bertrand Pontalis, analista francese che ho molto apprezzato. Leggo e rileggo:
« … Potrei rappresentare le tappe della mia vita come una successione di finestre che si aprono: le uscite con i compagni fuori dal quartiere, lontano dalla famiglia, l’apprendimento delle lingue straniere per l’anno della maturità, i miei viaggi fuori dalle frontiere, i miei amori (non tutti …), le letture e le riletture, la mia analisi sul divano, le mie analisi sulla poltrona. (…) La mia topica delle finestre aperte … analogia tra il fuori-tempo dell’infanzia e il fuori-tempo dell’inconscio … ».
Apro la finestra e mi concedo un pensiero finale. Chissà come sarebbe se abitassimo al presente le parole di Pontalis, vivendo e condividendo un tempo in cui, il più delle volte in silenzio, noi sentissimo e osservassimo senza lo schermo del sapere e delle parole, un tempo in cui tutti i nostri sensi fossero desti, in cui essere sensuali e visionari, in cui inventare il mondo e abitarne il reale dell’incontro con l’altro, senza dilazioni, senza deleghe al virtuale, ma come promessa, potere, impegno, dedizione e continua nascita generativa?

Paolo Brusa – Aprile 2020



1 Lewis Carroll, Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, 1871
2 J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà, 1996
3 Dati dall'Annuario Statistico del Servizio Sanitario Nazionale (Ministero della Salute):
  • «nel 1998: 311.000 posti letto (5,8 ogni mille abitanti) in 1.381 istituti di cura, di cui 61,3% pubblici e 38,7% privati accreditati
  • nel 2007: 225.000 posti letto (4,3 ogni mille abitanti) in 1.197 istituti di cura, di cui il 55% pubblici e 45% privati accreditati
  • nel 2017: 191.000 posti letto (3,6 ogni mille abitanti) in 1.000 istituti di cura, di cui il 51,80% pubblici e 48,20% privati accreditati … » (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2879_allegato.pdf ) … 
  • la popolazione è cresciuta da 57 milioni nel 2001 a 60 milioni e mezzo del 2017 (dati ISTAT). 
4 Per approfondire: Report, La zona grigia
5 J. B. Pontalis, Finestre, 2001

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