Esplorazioni - la struttura del fuori e del dentro.

202002 poster Escher Trieste
(possiamo abitare il mondo che verrà - ovvero pensieri sparsi e riflessioni sulla struttura e il funzionamento della cura nei gruppi - il reale in remoto).

Molti anni or sono, da giovane psicologo fresco di laurea, scrissi un articolo per il giornale dell'Ordine piemontese. Erano gli anni della diffusione massiccia di internet, e ci si avventurava nelle prime forme di comunicazione online. I social non erano stati inventati. Non esisteva faccialibro. Non esistevano gli strumenti VOIP.

Sembra un secolo fa, ma era già questo.
Mi fu chiesto di scrivere cosa ne pensassi della possibilità del lavoro di cura online. Scrissi che non pensavo davvero che sarebbe mai potuto accadere. Ne scrissi come di uno scenario tra realtà e illusione. Chi fosse nato nei giorni in cui scrissi quell'articolo, oggi sarebbe maggiorenne. In questi diciotto anni sono cambiate molte cose, e mi piace. Mi piace scoprire di aver cambiato idea. Mi piace il cambiamento. Come potrebbe essere diversamente?
Non già e non solo per la fortuna di fare il mestiere stupendo di accompagnare l'unicità dei cambiamenti, ma perché, come mi piace sempre ricordare, dal bing bang in poi, l'unica costante è il cambiamento. Come scriveva Arnold Mindell nel suo bellissimo libro del 2010 "Essere ne fuoco, conflitto e diversità come strumenti di cambiamento sociale":
“non c'è bisogno di forzare le cose per metterle in movimento, stanno già accadendo”.
Sono passati molti anni. Quel pensiero è cambiato, è diventato maggiorenne. Come sempre, non rinnego nulla. Ma se cambia qualcosa, e qualcosa cambia sempre, mi piace prenderne atto e accompagnare questo cambiamento.
Mi piace ricordare il “prima” per quello che è, un passato più o meno remoto che fa ricordo e memoria, aprire al “poi” e al suo mistero inconoscibile e sempre esplorabile. 
Mi piace abitare il presente, vivendo e condividendo ciò che vi accade. 
In fondo, come sappiamo, mentre abitiamo il tempo presente, il tempo presente ci abita. 
In un presente quotidiano colmo di paradossi, di correnti impetuose che lo modellano e ci modellano, mi piace offrire un discorso, e offrirmi ad un discorso, con la bellezza della condivisione di parole e del disvelamento della meraviglia per il mistero di un'esplorazione del nuovo mare in cui tutti siamo immersi. Mi piace più questa immagine del “siamo tutti sulla stessa barca”, un modo di dire che non mi convince. Mi pare invero che nel mare della vita, ognuno nuoti a modo proprio. A ognuno la sua onda, il suo stile, il suo godimento, il suo piacere, le sue bevute. Da ognuno la sua onda, il suo stile, il suo godimento, il suo piacere, le sue bevute. Ça va sans dire. 
Dopo diciotto anni, mi trovo nella condivisione di un nuovo discorso, popolato a partire dalle persone che ho incontrato, dai pensieri, dalle riflessioni e dalle suggestioni scaturite in seguito a momenti di vicinanza umana pur in remoto. Suddivido i testi e le parole del discorso per provare a condividere con chi non c'era fisicamente, ma c'era umanamente, per abitare in modi sempre nuovi la poesia della comunità umana. 
Anche se nulla può sostituire l'incontro in presenza, lavorare in remoto con i gruppi in queste lunghe settimane di chiusura domiciliare ha aperto spazi di pensiero e di condivisione impensabili nel tempo “prima”. 
Come sempre, sono spazi che regalano a chi li conduce suggestioni e stimoli da cui mi faccio abitare con piacere, per poi lavorarli per associazioni e per metafora. 
Apparecchio spazi aperti a dove condurranno, con la consapevolezza di come spesso sia il percorso, e non la meta, a donare senso al viaggio. La tavola imbandita mi consente di andare ovunque senza citare nomi, rispettando rigorosamente la privacy delle persone con cui condivido questi momenti, sempre intensi e preziosi.

Inaspettate scoperte di gioco. 
Nella differenza e nell'unicità di ognuno di questi incontri di gruppo online, nella meravigliosa particolarità delle ambientazioni, delle voci e delle immagini, si è giocato uno spazio nuovo, inesplorato. 
Uno spazio in cui la condivisione gruppale ha assunto dimensioni nuove, offrendo la sua modalità di funzionamento strutturale come un perfetto terreno di metafora. 
Ci si incontra in proiezione a partire da un luogo intimo in cui si sta chiusi (la propria casa), si viene visti in proiezione a partire dalla propria intimità che viene disvelata, anche solo in piccoli particolari. Un mobile, una libreria, una cucina, una camera da letto, una scrivania, un balcone, un poster, un mazzo di fiori, una finestra.
Ci si incontra nello spazio della proiezione, apparendo come tante immagini che si affiancano sullo schermo del computer, luogo virtuale e immaginario che è al contempo tremendamente reale, in cui i singoli si incontrano nella distanza degli spazi abitati a partire dalla proiezione loro e della realtà intima in cui abitano. 
Lo spazio si dilata, si apre la comunicazione, appaiono immagini, si vedono i volti, si percepiscono i colori. Le finestre si aprono sullo schermo, si appare, manifestando la propria immagine. Tutto lavora per metafora. Il percepito, come sempre, ha un suo spazio rilevante. Rivelante. Cosa si vede. Come si vede. L'insieme, le parti. Cosa farsene del reale se non metterci parola? 
Una chiamata occupa lo schermo, per suddividersi in successioni di divisioni progressive fino a raggiungere il corredo gruppale finale, quasi un processo di meiosi. Lo schermo si popola per divisione con le tante piccole immagini delle componenti dell'insieme gruppo. La frammentazione delle parti, l'immagine della schizofrenia. Pezzi allineati di stocafisso. Sto. Qua. Fisso. Bizzarria di parole ed immagini. Un Matrix in cui appare l'immagine residua di sé, la proiezione virtuale dell'io digitale. Gli albi delle figurine dei calciatori, “ce l'ho … ce l'ho … ce l'ho … manca”. Cielo. Manca. Forse manca il cielo. Sicuramente manca il contatto per una moltitudine di volti, parole, colori, corpi, sfondi, discorsi. Questa mancanza non limita la parola, che può fluire. 
Ascoltando le parole che vengono condivise dai partecipanti, si susseguono immagini, a volte profonde, a volte più leggere. Parole che disvelano l'umano. Come ho scritto altrove, c'è uno spartiacque esistenziale che definisce chi si è. 
Da una parte, ci si mostra per quel che si è. Dall'altra, si è per quel che si mostra. 
Nell'esercizio di sperimentare vicinanza nella profondità dei discorsi, ognuno porta il proprio. Con rispetto e dignità. Per il discorso proprio, per le parole dell'altro. 
Sulla schermo non si fissano solo le immagini, sostanzialmente statiche. Si fissano le parole, quasi una sotto-titolatura delle immagini di chi le ha condivise. 
Si parla delle persone di cui ci si prende cura. E quindi in primis di sé. Delle persone con cui si lavora, di chi ci è caro. Partner, famiglia, amante, amico/a, ospite, utente. Sempre persone, individui che danno voce alla loro unicità. 
Nasce quasi per magia un gioco, una simulata da fare nella vicinanza dello schermo e di ciò che si da. Il gioco nasce dall'intuizione di abbinare le parole che sono state condivise, i volti che le hanno espresse, e le persone di cui ci si prende cura. 
Per la magia che sempre abita i gruppi, la proposta viene rilanciata con entusiasmo da una partecipante. Il gioco ora ha un nome. Giochiamo a “memory”. 
Il gruppo si lancia. Si ascoltano e si sentono le parole degli altri, oltre che le proprie. Le si “appunta” nella memoria, le si abbina ad un ricordo, un'immagine. Gli abbinamenti restituiscono stupore e meraviglia per il rispecchiamento e la reciprocità di ciò che circola, anche a distanza, anche in remoto. 
Si scoprono nuovi significati e profondità a persone, atteggiamenti, parole che prima non avevano una posizione e un senso. Si coglie ciò che prima non era colto. 
Come agricoltori, si semina ciò che si è raccolto, per rilanciare, ognuno, il proprio discorso interno che accoglie la meraviglia dell'inesplorato. 
Un discorso nuovo, sviluppato per la magia di un gioco nato da quel gesto che permette ad ognuno di rivelarsi non già per il proprio sapere di sé e dell'altro, ma per ciò che si è, di fronte al mistero, di fronte all'altro, di fronte all'umano che solo nel mistero dell'incontro si può scoprire. Disvelato. Riscoperta della nudità esistenziale. Essenziale. 
È un abbandonare la propria posizione di sapere, per incontrare l'inaspettato nelle parole dell'altro. Separarsi dalle proprie certezze e sicurezze per abitare il terreno terrifico del cambiamento che l'esporci alle profondità dell'incontro regala. 
Come insegna la psicoanalisi, ognuno ha sempre le proprie ragioni, anche quando si scopre a sbagliare. Per scoprire la meraviglia occorre lasciare il terreno conosciuto per incontrare la comunità di umani che ci circonda e ci abita. Vivendo il cambiamento. 

Paolo Brusa – Aprile 2020 


→ a seguire: “Pensieri del dentro (1). (possiamo immaginare il mondo che verrà - ovvero pensieri sparsi e riflessioni nate nella vicinanza di qualche settimana di lavoro in remoto)”

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