Uno sguardo al limite: apprendere dall'esperienza del lavoro clinico con la disabilità infantile Appunti dal seminario di Simona Daneo e Michela Fiore
Sono
i pazienti che insegnano. La strada non c'è.
Al suo posto, c'è solo
un percorso. Un processo.
Un
inizio entusiasmante di un seminario intenso, profondo, vissuto al
limite tra lo sguardo clinico del professionista, e quello paterno
del genitore che si muove nello stesso campo.
Una
giornata intensa, profonda, uno sguardo che diventa un vederne e
dirne al limite, del limite e dal limite.
Come
consuetudine, qualche giorno è stato utile per far sedimentare le
tantissime suggestioni che Simona e Michela hanno regalato nel loro
seminario. Qualche giorno per preparare il tempo della condivisione.
Iniziare
dall'inizio, dallo sguardo, dall'incontro. Dai movimenti importanti,
di natura controtransferale, che si attivano a partire dalla
reciprocità che nasce dall'attivazione delle nostre parti più
intime e profonde di fronte al mostruoso, al difforme, alla paura, al
limite del pensare possibile una cura, che è sempre possibile se
come psicologi ci poniamo onestamente con la nostra nudità. Con il
nostro corpo, sempre un po' difforme dal corpo ideale, sempre
mancante di qualcosa. Come ci rimanda ogni volta uno specchio,
ugualmente è significabile la presenza del clinico nell'ambito della
disabilità. Così come ogni volta uno specchio sembra dirne qualcosa
delle nostre mancanze, e delle relative difese, così affrontare la
disabilità ci parla dei nostri movimenti difensivi di fronte alla
paura, alla vulnerabilità, all'essere oggetto del rifiuto, all'idea
della malattia, del corpo.
In
modo ancora più esplicito, seppur silenzioso e spesso a rischio di
negazione, rispetto ad ogni altro intervento di cura, lo spazio della
relazione è uno spazio per le dinamiche transferali e per il
controtransfert corporeo, che si gioca a partire da subito, dalla
reciprocità strutturale della relazione. Come in ogni altra
situazione di cura, è relazione di cura tra idee, idealità,
identità, ideali, desideri, mancanze, emozioni, corpi, concetti e
visioni, preconcetti e pregiudizi. Abile e disabile, rispetto a chi,
rispetto a cosa.
Incontrare
un corpo ne dice di un contatto. Fisico. Avere un contatto fisico con
il limite della malattia e della non-guarigione è un contatto con lo
sconforto, che interroga il corpo dello psicologo, oltre che il suo
desiderio. Insieme, interroga le parole, la curiosità, il trauma, il
corpo. Ascoltare le domande, aprendosi alle possibili risposte, alla
mancanza, alla precarietà, significa accogliere un discorso interno,
intimo, doloroso.
Significa
accettare una posizione che, partendo dall'iniziale scoprire ciò che
non sappiamo, i nostri pensieri non ancora pensati, muova verso una
ri-scoperta dei saperi profondi che non sapevamo di sapere. Sono i
pazienti che insegnano. La strada non c'è. Al suo posto, c'è solo
un percorso. Un processo.
Significa
essere a disposizione dell'altro, dell'apertura all'altro, a ciò che
il paziente mi può insegnare, mantenendo una prospettiva e una
proporzione interno/esterno vista dal di dentro.
Implica
una significazione che non si riesce necessariamente a recuperare per
il vissuto emotivo che ne deriva.
Il
“non-” di un'azione non è più un atto negato, né un esercizio
del caso, ma un momento di una vitalità residua, di un'espressività
unica e mai parziale se intesa dalla prospettiva del soggetto della
cura. Nulla è mai per caso, come si sente ripetere da Platone e
Aristotele a Master Ogway.
È
uno spazio “non-”. Non pieno, non saturo, non colmo; quasi
paradossalmente, è uno spazio non mancante ma colmo di mancanza. È
uno spazio insaturo.
L'esperienza
dello spazio insaturo, dell'im-possibile è già un rapporto con
l'essenza stessa del linguaggio che interviene come interpunzione,
segnando quella distanza che precede e consente il contatto. Questa
distanza non è un venir meno, non è una perdita, non è malattia o
disabilità. È al contrario ciò che produce uno spazio per
l'incontro con l'esistenza del limite e di quella mancanza generativa
in cui il desiderio di vita può compiersi.
Occorre
dunque aprirsi a spazi insaturi, alla mancanza, all'impotenza,
all'invisibilità. Senza riserve, senza difese. Farsene invadere e
pervadere. Il vissuto emotivo, il dolore, non è mai proporzionale
alla visibilità, specie nella disabilità o nella malattia
invisibile.
La
disabilità, acquisita o congenita, rimanda alle dimensioni acquisite
e congenite, o meglio, archetipiche, del curante, aprendo uno spazio
di agibilità che si situa in un logos intermedio, nella differenza
tra il “tempo prima” e il “tempo dopo”.
Il
“tempo prima” si connatura come un tempo della cura, dell'abilità
e dell'abilità della cura, uno spazio ideale da recuperare. Ma
questo ideale primario da recuperare non è dato, o meglio, è dato
un meno, da un fare a meno di una, o più, abilità. È uno tempo a
meno della cura, che non è data, in quanto non-possibile. L'abilità
dello psicologo si misura con lo stare in questo meno dell'abilità
della cura. Riuscire a ricucire questa differenza implica la
possibilità di questo unico spazio di cura, che si significa solo a
partire da un rovesciamento, e un superamento, logico. In questo
specifico ambito, più ancora che in altri, la “non-guarigione”
non si da come negazione, ma come unica condizione che consente il
darsi dell'atto analitico, uscendo da un “sé a meno”,
emancipandosi da una prospettiva sul passato, abitando un presente
nell'ignoranza del futuro.
Abitare
questa sofferenza, senza difendersene ma anzi difendendola consente
una condivisione esistenziale tra lo psicologo e il soggetto della
cura, consentendo di dare dignità e diritto alla sofferenza della
persona disabile.
Quasi
a contrapporsi al “meno” dell'ineluttabilità della diagnosi, la
persona disabile è spesso sovra-esposta a un “più” medicale,
una cura spesso fatta di una violenza silenziosa, invisibile e
inesorabile fatta di manipolazione, sguardi, violazioni dell'intimità
e dell'integrità del corpo, di un rimando continuo alla violazione
dell'im-possibile. Lo spazio clinico opera in un recupero di questa
agibilità interna, non prestazionale ma esistenziale. Come mi disse
una persona durante un gruppo di lavoro aperto « … sbavo, non so
parlare, non so esprimermi né muovermi come te, ma sento le stesse
cose, e di questo non posso proprio farne a meno…».
Come
in ogni ambito dell'intervento clinico, la dimensione che ci pertiene
esula dall'altro, situandoci di fronte. La questione sostanziale è
come sa stare il clinico nel campo dell'impossibile della guarigione
e dell'inesorabile della malattia, e della morte.
La
dimensione controtransferale interroga qui con maggiore intensità,
dal momento che se il lavoro clinico funziona, la sofferenza aumenta
man mano che il soggetto emerge dal silenzio, dal non-detto della
non-guarigione implicita. Accompagnare alla consapevolezza della
non-guarigione implica un percorso di individuazione identitaria a
partire da una ferita e-norme.
Diversamente
da altre situazioni, la ferita originaria è reale prima che
simbolica, e determina un funzionamento di “contenimento” che la
persona mette in atto per difendersi dal quotidiano, favorendo
movimenti di scissione e problematiche narcisistiche compensatorie di
sentimenti di rabbia e invidia. Questo movimento porta da una parte a
conflitti con un ideale dell'io, spesso mutuato per osmosi o per
ribaltamento dalle proposte genitoriali; dall'altro, può sfociare in
una proiezione compensatoria della disabilità in personaggi mitici e
supereroi.
Proprio
il raffronto, il contatto e il confronto continuo con la dimensione
genitoriale può lasciare nel minore disabile uno spazio di difficile
significazione di fronte alle difese espresse e agite dai genitori.
Questi sono essi stessi di fronte all'angoscia e al lutto per
un'idealità perduta, e agiscono proiezioni falsamente salvifiche
(“vedrai da grande cosa saprai fare”) o introiezioni
auto-accusatorie e parimenti consolatorie (“è colpa mia che l'ho
generato/a”).
Il
movimento auto-accusatorio è spesso ascoltato nei genitori, ed porta
evidentemente una difesa consolatoria, quasi che la disabilità
entrante in un discorso di colpa, ripetuto in continuazione, fosse di
qualche sostegno per il minore disabile.
L'inibizione
intellettiva e il diritto al rifiuto della riabilitazione completano
un quadro che interroga il farsene qualcosa di un'identità non
univoca, magnificamente riassunta dall'espressione citata da Simona
Daneo: un ragazzino disabile che in un momento di profonda dolorosa
intensità le disse «…non volevo un'altra mamma, volevo un'altra
nascita…».
Ciò
che queste parole dicono è la condizione significante di non
situarsi in una specularità con la parte genitoriale, che spesso
vive la disabilità dei figli nei termini introiettivi di «…proprio
a me doveva succedere…», ciò che
in realtà è successo ai figli, togliendo loro ulteriore spazio.
Osservare
se stessi è parte del lavoro clinico, così come dovrebbe essere
parte di quello genitoriale, in modo da scoprire l'invisibile, e
rendere visibili i movimenti e le dimensioni emozionali e
contro-transferali.
Parimenti,
la componente di genitorialità “educante” del clinico può
essere smossa a partire da una dimensione emotiva e
controtransferale, che può, e dovrebbe, sempre essere richiamata ad
uno spazio di consapevolezza, proprio per potersene fare qualcosa,
implicandola.
Proprio
poiché ogni atto interroga il nostro desiderio, il clinico può
autorizzarsi a faticare la sua sofferenza nell'incontrare l'altro
senza memoria e senza aspettative, per poterlo fare entrare nel campo
della sua cura, in cui il clinico è, e sarà sempre,
esistenzialmente esterno. Il clinico può creare da par suo uno
spazio oltre le proiezioni delle proprie parti ombra, o perturbanti,
implicandole a monte per poter stare comodi nel nostro “non-saperne”.
In
questo spazio che lasciamo insaturo, la persona disabile avrà una
possibilità di implicare se stesso di significarsi a partire dalla
capacità negativa come strumento per stare nell'incertezza.
Lo
stare di fronte alla disabilità, non diversamente ma più
intensamente di ogni altro intervento di cura, introduce un doppio
registro logico: la diversità dell'uguaglianza seduta di fronte
all'uguaglianza della diversità. Una a fronte all'altra. Una
affronta l'altra.
Così
da una parte avremo un «… non ti
guardo … non ti vedo … mi dimeno … il mio di-meno … lo dimeno
nella rabbia …». Di fronte, lo sguardo negli occhi, e dagli occhi,
del parlante: «… se ti guardassi, cosa vedrei? … questa
prospettiva di non-guarigione è così pervasiva, che quasi quasi
abbandonerei il campo e andrei fuori a fumare, ma ciò che vorrei non
si può, non è dato farlo …».
Ecco
di-spiegarsi il punto di contatto esistenziale «… ciò che vorrei
non è dato farlo…». Geneticamente. Esistenzialmente. Ecco come
la disabilità va ad interrogare il narcisismo portando dritto al
cuore esistenziale del clinico: la disabilità manifesta che si
manifesta e dispiega nella domanda e nel desiderio del clinico di
essere riconosciuto abile.
Imparare
a vivere lo spazio insaturo, entrare nella capacità negativa e
abitarla confortevolmente, accettare il contatto esistenziale più
profondo: «… ciò che vorrei non è dato…», verità speculare
che sola, se accettata, autorizzerà entrambi ad avventurarsi
nell'abisso della cura.
PS:
- Un grande e sentito grazie a Simona e Michela per aver trasmesso e riattivato questi tanti movimenti durante il loro seminario. Penso sia stato un ricevere un prezioso regalo.
- queste sono le note e le suggestioni appuntate durante il seminario "Uno sguardo al limite – apprendere dall'esperienza del lavoro clinico con la disabilità infantile" che le dott.sse Simona Daneo e Michela Fiore hanno tenuto sabato 2 luglio 2016
- Il video "uno sguardo al limite" raccoglie alcune suggestioni dal seminario
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