Appunti e spunti dalla conferenza europea di FEANTSA a Bruxelles
Le conferenze europee che FEANTSA organizza ogni anno sono sempre dei momenti importanti di confronto, scambio e dibattito. La conferenza è costruita su due giorni, come una sequenza di visite studio (solitamente il giovedì), sessioni plenarie e workshop su tematiche dedicate. Considero questi momenti aperti organizzati da FEANTSA come preziose opportunità di incontrare persone interessanti, da cui e con cui ricevere suggestioni durante i vari momenti di lavoro; sono inoltre l'occasione per incontrare e sviluppare nuovi pensieri e riflessioni.
A causa di una serie di ritardi aerei, quest'anno ho potuto unirmi unicamente al secondo giorno dell'edizione 2016, partecipando ai lavori del venerdì e rinunciando all'intera giornata di giovedì. Sin dalla mia prima partecipazione, ho trovato il mio modo per vivere questi incontri: la condivisione di riflessioni, suggestioni e discorsi apre alla creazione di nuovi pensieri e discorsi che nascono e si sviluppano nei giorni e nelle settimane seguenti.
Anche quest'anno a Bruxelles ho adottato lo stesso approccio, raccogliendo i discorsi in appunti che condivido dopo averli fatti sedimentare e macerare per alcuni giorni, dopo averli riorganizzati come forma pensiero suddividendo i temi in singoli discorsi.
La sessione plenaria, ovvero il discorso della competenza.
Le “capacità” e le “competenze” sono considerate spesso come bastanti per se stesse.
Per evitare di generare in-avvertiti solipsismi, conviene procedere con un'analisi dei bisogni iniziali e della domanda di cura, proponendo un approccio olistico verso le persone a cui la cura è offerta, capace di un'apertura al discorso dell'altro e a dove il suo dirne possa condurre all'interno di una cornice definita di contesto. Come conclusione di un processo, non potrà mancare una precisa verifica dei risultati netti.
Il percorso delle “capacità e competenze” ha una valenza però soprattutto interna, per diversi motivi. In ogni dinamica relazionale, il punto del discorso è sempre centrato sulla significazione che ogni soggetto fa di ciò che viene detto. Il fulcro della questione è una doppia domanda: “quali capacità per quali competenze?”.
Come spesso mi capita di ricordare nel mio lavoro con i gruppi, l'ambito che ci compete è l'analisi dell'esercizio della competenza, ovvero il dirne qualcosa delle modalità con cui singolarmente utilizziamo la nostra competenza, lasciando da parte la dimensione della volontà e delle intenzioni, e centrandosi sul netto.
Vedere l'esercizio della competenza consente di evidenziare le dinamiche potere-correlate. L'esperienza dimostra che, specialmente quando l'esercizio della competenza viene negato o forcluso, l'intervento relazionale e organizzativo si trasforma da attività di competenza a movimento auto-centrato e auto-referenziale. Questo movimento può essere più o meno consapevole; in entrambi i casi, è un movimento che risponde ad una decisa domanda narcisista: l'intera relazione è, deve essere, di una qualche utilità per il soggetto.
All'opposto, un esercizio della competenza svolto con onestà intellettuale sulle modalità con cui capacità e competenza vengono utilizzate, consente all'operatore della cura di liberare energie, attenzioni e curiosità per l'altro, e per essere di una qualche utilità per la persona di cui ci si prende cura.
Il grado di intimità e di trasparenza che si può creare all'interno della relazione di cura sarà allora una naturale conseguenza al netto dell'onestà e della applicazione di questa specifica posizione di apertura all'altro.
La sessione plenaria, ovvero il discorso dell'economia.
La dimensione economica è spesso la cartina di tornasole di ogni dibattito sociale.
Le persone possono infatti passare interminabili sessioni di approfondimento su come rendere il mondo migliore. Senza un'analisi approfondita delle determinanti economiche che sottostanno all'esclusione, alla povertà e/o alla fame, ogni discussione risulterà anche politicamente corretta, ma pretenziosa.
Per ragionare di cambiamenti reali, bisogna iniziare ad affrontare la realtà, a partire dalle determinanti economiche e sistemiche.
Affrontare la centralità delle dimensioni economiche che determinano la povertà, l'esclusione sociale e la fame, non significa assumere l'economia come punto di riferimento. Significa unicamente essere onesti e sufficientemente seri nel predisporre un approccio pragmatico che sostituisca gli spot promozionali e le buone intenzioni, e la loro inconsistenza.
Qualche tempo fa, a margine di un seminario aperto, una persona mi disse che se fosse stato accantonato un centesimo di euro per ogni parola spesa intorno alla povertà e all'esclusione sociale, queste sarebbero state sradicate ormai da anni, e coloro che continuano a parlarne avrebbero dovuto dedicarsi ad altro. Interessante pensiero, che rimette al centro il pragmatismo e l'analisi dei risultati netti delle politiche. Senza la verifica dei risultati netti, il dibattito continuerà, e povertà ed esclusione continueranno ad essere i fratelli depressi della democrazia.
Non c'è nulla di complicato nell'applicare il vecchio adagio di economia domestica per cui prima di iniziare una qualsiasi attività, si fa la lista della spesa sulla base dei soldi a disposizione e del risultato che si vuole ottenere.
In mancanza di questa basica regola che tutti conosciamo, immancabilmente si crea una distanza crescente tra parole e azioni, e, peggio, aumenta la voragine tra azioni e risultati netti. Eccesso di pessimismo? Sarà …
“To eradicate extreme poverty & hunger” è il primo obiettivo della Millennium Campaign, lanciata dalle Nazioni Unite nel 2000 e che doveva portare il risultato entro il 2015.
La “Post-2015 Development Agenda” ci proietta verso il 2030.
“Eradicate extreme poverty” è stato uno slogan per la strategia di Lisbona, lanciato nel 2000 e che doveva portare risultati entro il 2010. Nel 2005 è stato rivisto, e reinserito nella nuova Strategia di Lisbona l'obbiettivo “Ending homeless”, che ha anche definito il 2010 come anno europeo “for Combating Poverty and Social Exclusion”.
Nel 2010 è iniziato un nuovo percorso all'interno della strategia decennale “Europa 2020”, che si pone l'obbiettivo di liberare 20 milioni di persone dalla loro condizione di povertà entro il 2020. La storia continua …
Fintanto che mancheranno o rimarranno vaghe le determinanti politiche ed economiche, e l'analisi dei risultati rimarrà un'opzione, tutto slitterà a interessanti approfondimenti da condividere in ambienti confortevoli per chi vi partecipa, ma non cambierà sostanzialmente nulla per chi vive in strada o è sotto minaccia di sfratto.
Anzi, paradossalmente, il processo rischia di ridursi al seguente sillogismo:
Un workshop dedicato, ovvero un discorso sui migranti.
A metà degli anni novanta capitava spesso di sentire nei diversi scenari europei che la condizione della grave marginalità sociale stava radicalmente cambiando per causa dei migranti provenienti dai paesi dell'ex-patto di Varsavia. All'epoca spesso c'era chi diceva che la provenienza di tante persone da paesi non-UE, avrebbe costretto a rivedere le politiche di contrasto della grave marginalità per via dei migranti extra-comunitari.
Non c'è nulla di complicato nell'applicare il vecchio adagio di economia domestica per cui prima di iniziare una qualsiasi attività, si fa la lista della spesa sulla base dei soldi a disposizione e del risultato che si vuole ottenere.
In mancanza di questa basica regola che tutti conosciamo, immancabilmente si crea una distanza crescente tra parole e azioni, e, peggio, aumenta la voragine tra azioni e risultati netti. Eccesso di pessimismo? Sarà …
“To eradicate extreme poverty & hunger” è il primo obiettivo della Millennium Campaign, lanciata dalle Nazioni Unite nel 2000 e che doveva portare il risultato entro il 2015.
La “Post-2015 Development Agenda” ci proietta verso il 2030.
“Eradicate extreme poverty” è stato uno slogan per la strategia di Lisbona, lanciato nel 2000 e che doveva portare risultati entro il 2010. Nel 2005 è stato rivisto, e reinserito nella nuova Strategia di Lisbona l'obbiettivo “Ending homeless”, che ha anche definito il 2010 come anno europeo “for Combating Poverty and Social Exclusion”.
Nel 2010 è iniziato un nuovo percorso all'interno della strategia decennale “Europa 2020”, che si pone l'obbiettivo di liberare 20 milioni di persone dalla loro condizione di povertà entro il 2020. La storia continua …
Fintanto che mancheranno o rimarranno vaghe le determinanti politiche ed economiche, e l'analisi dei risultati rimarrà un'opzione, tutto slitterà a interessanti approfondimenti da condividere in ambienti confortevoli per chi vi partecipa, ma non cambierà sostanzialmente nulla per chi vive in strada o è sotto minaccia di sfratto.
Anzi, paradossalmente, il processo rischia di ridursi al seguente sillogismo:
- mettere in discussione le determinanti e le cause economiche, e le responsabilità politiche e sistemiche, che sottostanno alla povertà non è propriamente considerato “politicamente corretto”, ne quantomeno “politicamente efficace”
- viceversa, è “politicamente corretto” e “politicamente efficace” disegnare arabeschi di innovazione per l'innovazione, arricchita da colorate uova di Colombo
- al posto di programmi di investimento reale e sistematico basati su prevenzione, soluzioni individuali e analisi degli impatti, si tende a parlare di ciò che ci si trova dinanzi
- i risultati nel frattempo sono un incredibile e drammatico percorso:
- ➥ a fronte di una crisi generata dalle banche, un numero di persone molto grande ha perso il lavoro, e, di conseguenza, la propria fonte di sostegno economico;
- ➥ senza più possibilità di onorare i mutui, un numero impressionante di sfratti hanno portano un numero enorme di persone a perdere la loro casa;
- ➥ le case tornano in possesso esclusivo delle banche che hanno creato la crisi, e che reimmettono sul mercato le case di cui si sono re-impossessati in vendita e in affitto
- ➥ parte dei surplus del guadagno delle banche deve essere per legge destinato alle fondazioni bancarie che finanziano bandi contro la povertà e l'esclusione sociale
Un workshop dedicato, ovvero un discorso sui migranti.
A metà degli anni novanta capitava spesso di sentire nei diversi scenari europei che la condizione della grave marginalità sociale stava radicalmente cambiando per causa dei migranti provenienti dai paesi dell'ex-patto di Varsavia. All'epoca spesso c'era chi diceva che la provenienza di tante persone da paesi non-UE, avrebbe costretto a rivedere le politiche di contrasto della grave marginalità per via dei migranti extra-comunitari.
Nei 15 anni che seguirono, accaddero due cose: gli stati dell'est divennero membri della Comunità Europea, ricevendo ingenti somme di denaro per migliorare le condizioni di vita adeguandole agli standard occidentali.
In quegli stessi anni, il mercato unico si ampliò e trovò una sistemazione redditizia per quei flussi di persone, trasformati in mano d'opera pronta all'uso.
Altri 5 anni e dove c'era stato il maggior beneficio di questa situazione, scoppiò la crisi: tutti abbiamo visto il collasso delle banche per la bolla immobiliare e speculativa, il loro successivo salvataggio e le misure di austerità subitaneamente introdotte.
Oggi capita di sentire che i rifugiati e i migranti extra-comunitari stanno radicalmente cambiando il dibattito sulla povertà e la grave marginalità.
Può capitare di avere l'impressione di una certa ripetizione, con l'unica differenza della provenienza degli attori principali, quasi un ritornello “mamma mia, here we go again / how can I resist you”?
Spesso ripeto come la realtà abbia una caratteristica inconveniente: esiste.
Cosa è cambiato nella sostanza e nel merito (ovvero al netto) in 15 anni di discorsi? Sono cambiati alcune aggettivazioni, passando da un flusso di migranti “extracomunitari provenienti dall'est europeo non ancora Eu”, ad un flusso di migranti e “rifugiati provenienti da paesi non europei”.
La differenza sembra risiedere nella condizione di essere “non-europeo”. Ridurre il discorso ad una questione di confini porta il dibattito verso una pericolosa deriva di confronto etnico. Noi contro loro. Europei contro ex-colonie. Sarebbe un'affermazione davvero imbarazzante per ogni auto-proclamata democrazia in un mondo globale.Cosa accomuna i migranti dell'est-europa degli anni '90 con i rifugiati dei nostri giorni è l'essere considerati loro (in quanto persone, individui, gruppi) l'aggettivazione su cui pesa l' homelessness. È un movimento importante: il cambiamento è su chi cambia lo scenario, o altrimenti detto, sul colore e sulla provenienza geografica.
Mentre i problemi rimangono tali e quali, anche l'indicibilità delle cause sistemiche ed economiche che sono la causa di povertà, migrazioni ed esclusione rimangono uguali a se stesse. Le banche continuano a fare il loro lavoro. La finanza continua a fare il proprio lavoro. Le multinazionali continuano a fare il loro lavoro. I governi e le istituzioni continuano a fare il loro lavoro. Il terzo settore continua a fare il proprio lavoro. I poveri, i rifugiati, gli esclusi … la matematica ci insegna che il risultato non cambia se l'unica cosa che cambia è l'ordine dei fattori.
In quegli stessi anni, il mercato unico si ampliò e trovò una sistemazione redditizia per quei flussi di persone, trasformati in mano d'opera pronta all'uso.
Altri 5 anni e dove c'era stato il maggior beneficio di questa situazione, scoppiò la crisi: tutti abbiamo visto il collasso delle banche per la bolla immobiliare e speculativa, il loro successivo salvataggio e le misure di austerità subitaneamente introdotte.
Oggi capita di sentire che i rifugiati e i migranti extra-comunitari stanno radicalmente cambiando il dibattito sulla povertà e la grave marginalità.
Può capitare di avere l'impressione di una certa ripetizione, con l'unica differenza della provenienza degli attori principali, quasi un ritornello “mamma mia, here we go again / how can I resist you”?
Spesso ripeto come la realtà abbia una caratteristica inconveniente: esiste.
Cosa è cambiato nella sostanza e nel merito (ovvero al netto) in 15 anni di discorsi? Sono cambiati alcune aggettivazioni, passando da un flusso di migranti “extracomunitari provenienti dall'est europeo non ancora Eu”, ad un flusso di migranti e “rifugiati provenienti da paesi non europei”.
La differenza sembra risiedere nella condizione di essere “non-europeo”. Ridurre il discorso ad una questione di confini porta il dibattito verso una pericolosa deriva di confronto etnico. Noi contro loro. Europei contro ex-colonie. Sarebbe un'affermazione davvero imbarazzante per ogni auto-proclamata democrazia in un mondo globale.Cosa accomuna i migranti dell'est-europa degli anni '90 con i rifugiati dei nostri giorni è l'essere considerati loro (in quanto persone, individui, gruppi) l'aggettivazione su cui pesa l' homelessness. È un movimento importante: il cambiamento è su chi cambia lo scenario, o altrimenti detto, sul colore e sulla provenienza geografica.
Mentre i problemi rimangono tali e quali, anche l'indicibilità delle cause sistemiche ed economiche che sono la causa di povertà, migrazioni ed esclusione rimangono uguali a se stesse. Le banche continuano a fare il loro lavoro. La finanza continua a fare il proprio lavoro. Le multinazionali continuano a fare il loro lavoro. I governi e le istituzioni continuano a fare il loro lavoro. Il terzo settore continua a fare il proprio lavoro. I poveri, i rifugiati, gli esclusi … la matematica ci insegna che il risultato non cambia se l'unica cosa che cambia è l'ordine dei fattori.
Un workshop dedicato, ovvero un discorso su reciprocità e coproduzione.
Come mi capita spesso di condividere, se non si cambia nulla, se non si mettono in discussione le cause strutturali, ma solo i sintomi e gli effetti di un fenomeno, nessun cambiamento è sperabile.
Se in generale una serie di interventi di contrasto alla povertà non producono risultati netti sostanziali, ci sono sostanzialmente due possibilità.
La prima è dare la responsabilità, e spesso la colpa, alle persone di cui ci si dovrebbe prendere cura. Purtroppo accade spesso. La seconda possibilità è di mettere in discussione la posizione, l'approccio, le pratiche e l'apertura di chi è operatore del prendersi cura. Se possiamo operare un cambiamento nella nostra struttura interna, allora anche nella struttura esterna saranno possibili cambiamenti altri, e dell'altro.
Quando mi trovo a lavorare per supportare gruppi e organizzazioni a raggiungere risultati netti diversi, preferisco iniziare mettendo in discussione il ruolo strutturale del gruppo stesso, le sue dinamiche interne ed esterne, affrontandone il funzionamento, l'equilibrio, i pregiudizi, i ranghi interni, il clima. La ragione è semplice: è la struttura a determinare un sintomo, mentre un sintomo fa sempre riferimento alla sua struttura.
Non è nulla di complicato: quando un bambino ha la febbre (sintomo), la questione è se sia un sintomo di un semplice raffreddore (causa strutturale), oppure se sia il primo sintomo di un'infezione (altra causa strutturale). Se come genitore mi fermo a trattare la febbre come realtà a se stante, rischio che l'infezione peggiori e la situazione si aggravi. Ogni genitore sa che la questione vera non è la febbre, ma cosa la causi. Non il sintomo, ma la struttura. Non penso ci siano motivi accettabili per cui prendersi cura di un bambino sia diverso dal prendersi cura di un'altra persona.
Ci sono diversi approcci, strumenti e metodi che permettono gli operatori della cura di mettere in discussione la propria posizione come punto di partenza. A seconda delle diverse categorie professionali, questo può assumere sfumature ed evidenze diverse.
È il discorso delle dinamiche transferali e controtransferali: ogni psicologo clinico sa che sono la significazione di un discorso di cura.
È il discorso della gestione delle emozioni, letta in chiave di resilienza e/o di empatia: ogni educatore sa che sono imprescindibili nella costruzione di un percorso di reinserimento.
È il discorso dell'avere diritto a determinare la propria vita e i propri cambiamenti: ogni persona che cura o di cui ci si prende cura sa che se non siamo noi i pieni soggetti del cambiamento, se qualcosa cambia, è solo adattamento temporaneo. Ogni persona che cura o di cui ci si prende cura sa che per essere soggetti del cambiamento è necessario che esista uno spazio logico, reale e simbolico che permetta il riconoscimento dell'altro, la dignità, il rispetto, la responsibilità, una reciprocità dinamica.
Alle équipe con cui lavoro propongo ogni volta che mi è possibile un approccio olistico, esistenziale e partecipato nell'ambito del prendersi cura. La partecipazione e i principi della co-costruzione ne sono un valido strumento, specialmente all'interno dei servizi sociali ed educativi; con semplicità ed efficacia diventa possibile:
- riconoscere gli individui come soggetti competenti
- far partire ogni discorso dalle competenza delle persone
- imparare a condividere l'assunzione delle responsabilità, lasciando la responsabilità al soggetto della cura
- aprire alle competenze pratiche dei pari inserite all'interno di una struttura formativa e in riferimento al professionista
- essere estremamente attenti ad evitare ogni forma di trappola relazionale legata alle dinamiche di potere
Questi principi non sono nuovi: a partire da Vygotskij, la gestalt e il costruttivismo fino all'approccio esistenziale al lavoro clinico sono state scritte pagine importanti sulla co-costruzione come struttura fondante ogni serio intervento di cura.
Per rimanere in generale sull'ambito di intervento dei servizi di cura, potremmo iniziare a vedere i tre principali livelli di co-produzione:
- descrittivo: una forma base nei servizi avviene quando l'intervento è individualizzato secondo un approccio clinico, olistico ed esistenziale, ma le attività che vengono condivise non vengono rediscusse, e non concorrono alla ridefinizione del servizio. A questo livello, la co-produzione non è esplicita: ne consegue che le persone che beneficiano del servizio non vengono formalmente riconosciuti come pieni soggetti del cambiamento, che rimane iscritto alle virtù educative, riabilitative e taumaturgiche del servizio stesso
- intermedio: all'interno del percorso di cura, il riconoscimento la dignità e il rispetto definiscono la struttura della reciprocità del processo. A questo livello, la co-produzione inizia ad essere esplicita attraverso il riconoscimento della centralità vera del soggetto della cura, che partecipa, per esempio, alla definizione degli standard di servizio e nella scelta dei professionisti con cui lavorare
- trasformativo e generativo: all'interno della complessità dei percorsi e dei processi di cura, le persone sono riconosciute formalmente come i primi soggetti che possono dirne qualcosa del proprio percorso. A questo livello, la co-produzione è sostanziale, esplicita e pervasiva attraverso il riconoscimento della piena soggettività della persona, con la piena attuazione delle competenze e dei diritti che ne derivano.
Dato che il variegato universo di chi si prende cura è composto da differenti professionalità, che ad ogni tipologia di intervento e ad ogni categoria di professionisti corrisponde un diverso tipo di contratto con i soggetti della cura, cercherò di mantenere il discorso sul piano più semplice possibile: l'uguaglianza è reale unicamente su un piano esistenziale. Ogni altra forma dice qualcosa dei pregiudizi, delle aspettative e del livello di narcisismo del prestatore della cura.
Proprio come accade per ognuno di noi, tutte le persone hanno più probabilità di affrontare un cambiamento quando questo è centrato sul riconoscimento della responsabilità individuale, piuttosto che non in un'assunzione di colpa.
È fondamentale strutturare l'intervento di cura a partire dalla dignità e dal rispetto della responsabilità che viene determinata autonomamente dal soggetto. Qualsiasi strada venga percorsa, è significativa, e può essere significata, unicamente a partire da chi la sta percorrendo. L'intervento valutatorio esterno rischia di distrarre dal processo individuale, dal momento che il focus non è un contendere su chi abbia ragione, ma un accogliere e un significare in cui chi presta la cura interviene come facilitatore, non come comandante.
Giocando sulla grammatica, si può dire che il soggetto è la persona che porta la domanda di cura, mentre il professionista si porrà come uno tra gli oggetti della cura stessa.
Quando mi viene richiesto di prendermi cura di una persona, o di un gruppo, ripeto sempre come io non possa conoscere molto delle persone con cui lavoro, ma che sono a disposizione per accompagnarle in un loro percorso che li conduca a trovare le loro risposte, e che mi guarderò bene dal fornire le mie al posto loro.
Un workshop dedicato, ovvero un discorso sulla differenza tra bene-essere e bisogni.
Ogni processo di cura dovrebbe avere come assunto il bene-essere, ovvero un livello di qualità esistenziale che supera di gran lunga la mera soddisfazione dei singoli bisogni.
Il bene-essere di-svela alle persone con cui lavoriamo la possibilità di accedere ad una dimensione propria, individuale, esistenziale, di pacificazione con la propria storia (individuale, familiare e transgenerazionale), di ridefinizione della propria forma, di riscoperta delle proprie risposte e di tutto ciò che non si sapeva sapere, di ascolto delle mancanze e dei desideri, di riappropriarsi del senso più profondo della propria vita.
Il bene-essere implica il superamento dell'orizzonte del godimento, e l'apertura all'eros.
Un percorso di cura con questi presupposti è un inizio, non un traguardo. Il processo sarà disseminato di trappole relazionali, una delle quali ha proprio a che fare con la responsabilità.
È uso comune sentire l'espressione “condividere le responsabilità”. Questa frase mi è sempre suonata bizzarra. Se venisse applicata a noi, probabilmente reagiremmo in modo deciso ogni qual volta un altro da noi provasse ad inserirsi nella sfera della nostra responsabilità per prenderne una parte da condividere. Quando all'università passiamo un esame con un buon voto, la responsabilità è nostra. Se qualcuno ci dicesse che è grazie ai consigli altrui, probabilmente risponderemmo piccati. Sembrerà incredibile, ma funziona così per chiunque, anche per le persone di cui ci prendiamo cura.
La responsabilità può essere assunta solo in termini individuali. È invece possibile condividere questa assunzione, e gli accordi che ne conseguono sono gli unici che possono essere condivisi in reciprocità e mutualità.
Infine, un'immagine per chiudere questi appunti. È l'immagine dell'ingenuità. Quell'espressione che a volte compare sui volti, e che spesso ha una funzione consolatoria, a volte in parte assolutoria. Come mi ricordava anni fa una persona con cui lavoravo, l'ingenuità è un lusso che si può permettere solo chi non debba combattere contro i demoni propri e altrui per garantirsi la sopravvivenza giornaliera. All'opposto, c'è l'immagine di chi offre la propria professionalità nella cura, fermandosi rispettosamente dove inizia l'altro, senza bisogno di forzare: se fossimo onesti e attenti, vedremmo che un cambiamento sta già accadendo.
Note e bibliografia:
Forse
è un segno dell'età, ma sono sempre più convinto che nel lavoro di
cura, che implica sempre un autorizzarsi responsabile rispetto alla
propria competenza, al processo e all'approccio scelto, sia
fondamentale una seria formazione. Così, per chi volesse
approfondire:
-
sul tema della partecipazione, le guide pratiche sviluppate dal
gruppo Partecipazione di FEANTSA:
Get
a different result...get people participating,
disponibile in English,
Catalan,
French,
German,
Polish,
Spanish
(in fase di traduzione in italiano)
-
sul tema della co-produzione:
Appari
P., Il
laboratorio come luogo di co-costruzione
della conoscenza,
1999
Galbusera
L. & Fuchs T., Comprensione
incarnata: alla riscoperta
del corpo dalle scienze cognitive alla psicoterapia,
2013
Galbusera
L. & Fuchs T., Embodied
understanding: discovering the body from cognitive science to
psychotherapy,
2013
Galimberti
U., Psiche e techne, 1999
Mattei
S., La
co-costruzione del contenitore dialogico,
Miato
L., La
teoria Vygotzijana,
2004
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